Per concludere positivamente una mediazione occorre un incontro di volontà tra i litiganti: è cioè necessario che le parti decidano di giungere all’accordo. Da cosa dipende questa decisione?
Se pensiamo che si tratti di una volontà ponderata all’esito di procedimenti logico-razionali che contemplino numeri e valori reali ed oggettivi, stiamo probabilmente osservando solo una parte del problema.
Sino agli anni ’50 (Von Neuman. Morgenstern), in diversi ambiti, si considerava il processo cognitivo che conduce ad una decisione come il frutto di una pacata riflessione dei pro e contro delle diverse opzioni a disposizione tanto è vero che nel tempo si erano elaborate le teorie dell’utilità attesa (Bernoulli la teorizzò sin dal ‘700) che tanto successo hanno poi avuto in economia.
Insomma l’homo oeconomicus classico, tutta ragione e nessuna emozione (quasi che fosse un precursore del computer…) è stato il modello di riferimento per molto tempo e, d’altronde, non meraviglia, perché si inserisce nel solco di una lunga tradizione occidentale che può partire dalla filosofia classica dei greci e passare per la ragion pura di Kant, soffermandosi, però su Cartesio: su questo notevole filosofo e matematico, infatti si può concentrare la critica più innovativa all’analisi dei processi decisionali avanzata Antonio Damasio autore (non a caso..) del libro “L’errore di Cartesio”. In quest’opera che non ha nemmeno vent’anni e che sta diventando un classico in materia, il neuroscienziato portoghese sostiene che, contrariamente al sentire comune emozione e ragione non sono affatto due treni che non si incontrano mai, poiché gli stati emotivi svolgono un ruolo fondamentale nella presa delle decisioni.
Forse, se invece che ai filosofi, matematici ed economisti del passato, si volgesse lo sguardo ai letterati, la cosa non ci sorprenderebbe: i poeti di animo più sensibile e fini conoscitori dell’animo umano hanno sempre compreso che l’emozione può spesso prendere il sopravvento sulla lucida ragione.
Lungi dal paventare ipotesi deterministiche, si vuol solo notare come i moderni approcci neuropsicologio o psicobiologico consentano di comprendere un po’ meglio quel che accade nel nostro cervello nel momento in cui dobbiamo pervenire ad una decisione.
Non v’è modo in questa sede di dimostrare la rilevanza dei processi emotivi nel decision making, ma il dato pare abbastanza consolidato nell’attuale letteratura di riferimento; ammettendo dunque questo, si può comprendere come possano esistere emozioni funzionali ed altre disfunzionali alla conclusione di un accordo: tra le seconde va probabilmente annoverata la rabbia che può essere definita e considerata come uno stato o come un tratto.
Nel primo caso essa è momentanea e suscitata da un evento, nel secondo, invece è una sorta di peculiarità caratteriale dell’individuo o che può dipendere dallo sviluppo, come avviene nella fase adolescenziale (Gambetti e Giusberti).
La seconda è troppo complessa e fuori della conoscenza di chi scrive (anche perché potrebbe giungere al limite di confluenza del disturbo mentale), mentre la prima.. è una delle più comuni e pare che sia provata in media più volte al giorno o alla settimana.. da chiunque.
La rabbia si riferisce ad uno stato emotivo che comprende sentimenti generici che possono essere idealmente posizionati in una sorta di continuum (Gambetti e Giusberti).
Non tutti gestiscono la rabbia alla stessa maniera, ma quel che è comune, tuttavia è l’impatto di essa nei processi decisionali.
Sembra che in particolar modo la rabbia induca ad una errata percezione dei rischi effettivi in situazioni id incertezza giacché porta a:
– sopravvalutare ottimisticamente le percentuali di verificazione di eventi favorevoli (fenomeno non nuovo per i negoziatori esperti, che va sotto il nome di overconfidence, v. Shell);
– seguire procedure stereotipate, replicando schemi già utilizzati in passato, invece di valutare tutte le possibili alternative (Lerner e Keltner);
– prestare maggiore attenzione agli indizi superficiali di un messaggio e minore attenzione al contenuto delle informazioni (Tiedens e Linton)
La spiegazione di tale fenomeno si perde nella storia evolutiva dell’uomo, quando l’aggressività era un’ottima strategia di sopravvivenza e l’assunzione di maggiori rischi oggi poteva impedirne di peggiori domani; purtroppo, come nota Cavalli Sforza, l’evoluzione culturale è stata drammaticamente più veloce di quella biologica e ci ritroviamo nel XXI secolo con un cervello che si è formato diverse centinaia di migliaia di anni fa. Non abbiamo più il corpo completamente ricoperto di peli, camminiamo in stazione eretta ed usiamo il linguaggio verbale, ma una buona parte delle strutture cerebrali le condividiamo (come il 99 % del DNA) con le scimmie.
Dunque meccanismi naturali progettati per un ambiente che non c’è più e che è in continua evoluzione devono fare i conti con il pensiero razionale che, tutto sommato, è davvero una conquista molto, ma molto recente dell’uomo. La rabbia, infatti, al pari delle altre emozioni, viaggia in un circuito apposito (sistema limbico, nella zona più profonda ed interna del cervello e direttamente connesso al tronco encefalico) anatomicamente diverso ed autonomo rispetto a quello in cui si sviluppa il pensiero cosciente (corteccia prefrontale).
Pensare che il secondo abbia la possibilità di prevalere sul primo, è una ipotesi scientificamente poco provata: è provato, invece, che la velocità di trasmissione dei segnali che inducono emozioni (via alta) è fisicamente maggiore di quella di cui gode la ragione (via alta, v. LeDoux, Il cervello emotivo). Questo è almeno quello che sta emergendo dai recenti studi effettuati con la tecnica del risonanza magnetica funzionale (fMRI ) o attraverso la stimolazione magnetica transcranica (TSM), in altri casi tramite l’uso di elettrodi direttamente connessi al cervello.
E’ probabilmente vero quindi che le emozioni, più veloci ed indipendenti dall’autocoscienza, siano in grado di produrre risposte emotive prima ancora ed indipendentemente dalle considerazioni logico-razionali: alla luce di questo è possibile e utile ragionare – solo per fare un esempio – in termini di BATNA con un litigante che prova rabbia?
Non si vuol sostenere che parlare di alternative sia errato, ma solo che occorre trovare un modo per gestire la rabbia del litigante, altrimenti sarà tutto più difficile o addirittura compromesso.
Questo “modo” non è già pronto e disponibile e chi scrive non vuole e non può dare semplicistiche ricette pronte; non si vuol suggerire di far defluire la rabbia invogliando lo sfogo né di ignorarla.
Si può allora solo considerare che la formazione del mediatore e dell’avvocato che assiste il cliente coinvolti in un conflitto dovrebbe indirizzarsi in due direttrici:
1) l’apprendimento del funzionamento dei meccanismi di cd. reg0lazione delle emozioni che implicano nozioni come la resilienza, il coping (Cooper), l’appraisal (Frijda) ed il reappraisal (v. in specie Matarazzo O. e Zammuner V. L., La regolazione delle emozioni)
2) l’uso di un linguaggio non verbale o addirittura metaforico (Nardone) che sia in grado di essere processato non tanto dalla parte logica del cervello quanto da quella emotiva.
Più che un punto d’arrivo, un punto di partenza.
2 commenti
articolo interessantissimo: complimenti!
Grazie Andrea;
un contributo dalla collega Patrizia Bonaca:
LE ORIGINI DEL CONFLITTO: LA SUPERBIA, L’INVIDIA E L’IRA?
http://www.industriadellesperienza.it/wp-content/uploads/2012/05/vizi-capitali.pdf