Con la circolare CNF 24-C-2011, il presidente Guido Alpa ha comunicato ai Presidenti dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati le modifiche che il Consiglio Nazionale Forense, nella seduta del 15 luglio 2011, ha apportato al Codice deontologico, a seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina della mediazione-. Le novità si sostanziano nell’introduzione dell’art. 55 bis e nelle modifiche agli articoli 16 e 54.Gli effetti della novella potrebbero riservare molte sorprese.
Se, fino ad ora, gli avvocati hanno contestato l’apertura alle funzioni di mediatore anche a professionisti privi di competenze giuridiche e processuali, le nuove norme, di fatto, potrebbero impedire a molti avvocati, soprattutto gli associati ai grossi studi legali, di svolgere le funzioni di mediatore. Non tanto e non solo per un concreto stato di incompatibilità, quanto per il rischio derivante dall’impossibilità di prevenire violazioni dipendenti, in concreto, da fatti altrui leciti. Le nuove norme, quindi, potrebbero tracciare una netta linea di demarcazione tra il tradizionale ruolo dell’avvocato e le funzioni di avvocato – mediatore. Contrariamente, infatti, a quanto le polemiche degli ultimi mesi potessero far pensare, gli avvocati sono stati tra i professionisti che maggiormente hanno svolto il ruolo di mediatore. Ecco perché sfidando tutte le previsioni, il forte interesse dimostrato dagli avvocati per l’istituto della mediazione potrebbe aver stimolato, di contro, la necessità di porre un argine. Ma andiamo con ordine. Il CNF ha ritenuto, di non ravvisare la necessità e l’urgenza di intervenire sui profili deontologici dell’avvocato che assiste tecnicamente la parte nel procedimento di mediazione, “in quanto per quei profili vale l’applicazione delle attuali e vigenti regole deontologiche proprie dell’attività professionale in genere”. L’unica novità in questo senso appare l’integrazione di cui all’art. 54, che rileva nell’ambito dell’operatività cui l’avvocato è chiamato dall’applicazione dell’istituto della mediazione/conciliazione. Tale novella, infatti, attribuisce rilievo, ai fini deontologici, ai rapporti professionali, oltreché con arbitri e consulenti tecnici, anche con mediatori/conciliatori, che devono essere ispirati a “correttezza e lealtà nel rispetto delle reciproche funzioni”. Riguardo agli obblighi di informazione nei confronti dell’assistito circa la possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione, ai sensi dell’art.4, comma 3, del D.Lgs.vo 4 marzo 2010 n. 28, inoltre, la Relazione alle modifiche “non esclude che il comportamento totalmente o parzialmente omissivo dell’avvocato, rispetto alla previsione del modello 3 normativo, possa ed anzi debba essere valutata sul piano deontologico, con particolare riferimento ai canoni di cui all’art. 40 del vigente codice”. Si tratta, insomma, di norme di lieve entità: il comportamento da tenere in mediazione rientra nella disciplina già esistente. Di contro, rilevanti sono gli interventi regolamentari sui profili deontologici cui deve essere informata l’attività dell’avvocato-mediatore.
Come detto, anche l’art.16 ha subìto delle importanti modifiche. Le novità hanno la funzione di evitare possibili equivoci. Si badi, infatti, che l’originaria formulazione dell’art. 16, canone I, stabiliva che “L’avvocato non deve porre in essere attività commerciale o di mediazione”. Il CNF, pertanto, ha opportunamente modificato il precedente testo con la seguente norma “L’avvocato non deve porre in essere attività commerciale o comunque attività incompatibile con i doveri di indipendenza e di decoro della professione forense”.
Le novità più importanti e destinate a far discutere, tuttavia, riguardano l’introduzione dell’art. 55 bis.
La norma, secondo la volontà espressa dal CNF nella Relazione che accompagna il testo novellato, dovrebbe seguire la traccia delle previsioni in tema di arbitrato (art. 55) e del magistrato onorario (art. 53, c. II), al fine di assicurare il rispetto dei requisiti di terzietà, indipendenza, imparzialità e neutralità del mediatore.
Una lettura più attenta, però, mette in luce il rischio del restringimento dell’accesso alla funzione di mediatore, ben oltre i limiti a tutela dell’imparzialità e della neutralità. L’art. 55 bis, infatti, và chiaramente oltre i termini posti dalle norme menzionate, tant’è che lo stesso CNF, nella Relazione preliminare alla riforma, chiarisce che l’art. 55 (Arbitrato) del vigente codice deontologico “sarà oggetto di un immediato intervento di modifica da parte del Consiglio per renderla coerente ed omogenea alla novella rappresentata dallo stesso art. 55 bis”. Non sono ancora molto chiare, tuttavia, le motivazioni che hanno spinto verso questo nuovo indirizzo regolamentare restrittivo. Se le norme sull’arbitrato, fino ad ora, si fossero dimostrare insufficienti, si sarebbero dovute modificare, prima queste e, poi, disciplinare alla stessa stregua la mediazione. Se, invece, le vigenti norme sull’arbitrato fossero state sufficienti, al fine di assicurare imparzialità e neutralità, l’intervento maggiormente restrittivo potrebbe essere inutile. Di fatto, però, pur ammettendo la contraddizione e nonostante le promesse, allo stato si hanno maggiori restrizioni nello svolgimento della funzione di mediatore, rispetto a quella di arbitro. L’art. 55 bis esordisce con la seguente prescrizione: “L’avvocato che svolga la funzione di mediatore deve rispettare gli obblighi dettati dalla normativa in materia e le previsioni del regolamento dell’organismo di mediazione, nei limiti in cui dette previsioni non contrastino con quelle del presente codice”. Tale disposizione onera il singolo avvocato – mediatore ad un difficile giudizio sulla conformità del regolamento dell’organismo di mediazione alle indicazioni del codice deontologico. Si badi, in proposito, che gli stessi Consigli potrebbero esprimere orientamenti differenti, circa l’interpretazione e l’applicazione di una medesima norma, con conseguenti ed ingiuste diversità sanzionatorie.
Il primo canone dell’art.55 bis stabilisce che “L’avvocato non deve assumere la funzione di mediatore in difetto di adeguata competenza”.
In questa prescrizione, come in altre, l’art. 55 bis sembra esprimere un indirizzo opposto rispetto alla disciplina normativa, prescindendo dall’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale del D.Lgs.vo 4 marzo 2010 n.28.
La Relazione alla riforma, infatti, si sofferma sul concetto di “competenza”, che si sostanzierebbe “non solo nella capacità di dominare e padroneggiare le essenziali ed imprescindibili tecniche di mediazione, e le peculiarità di quest’ultime, ma anche nella capacità, che si coniuga principalmente se non esclusivamente con l’essere avvocato, di garantire <che i privati non subiscano irreversibili pregiudizi derivanti dalla non coincidenza degli elementi loro offerti in valutazione per assentire o rifiutare l’accordo conciliativo, rispetto a quelli suscettibili, nel prosieguo, di essere evocati in giudizio>”. In definitiva, si tenta di orientare il concetto di “competenza”, che albergherebbe nel possesso degli strumenti necessari ad informare le parti su ciò che “nel prosieguo potrebbe essere suscettibile di essere evocato in giudizio”. Appare evidente che tale interpretazione del concetto di “competenza” potrebbe risentire delle pronunce dei giudizi pendenti, laddove i Giudici si dovessero esprimere sul punto, consentendo lo svolgimento della funzione di mediatore anche a soggetti privi di competenze giuridiche e/o processuali.
I punti maggiormente critici, tuttavia, sembrano essere quelli concernenti gli obblighi di imparzialità, indipendenza e terzietà dell’avvocato/mediatore civile, disciplinati dai canoni II e III dell’art. 55 bis.
In particolare, il secondo canone stabilisce che “Non può assumere la funzione di mediatore l’avvocato:
a) che abbia in corso o abbia avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle parti;
b) quando una delle parti sia assistita o sia stata assistita negli ultimi due anni da professionista di lui socio o con lui associato ovvero che eserciti negli stessi locali.
In ogni caso costituisce condizione ostativa all’assunzione dell’incarico di mediatore la ricorrenza di una delle ipotesi di cui all’art.815, primo comma, del codice di procedura civile”.
Si tratta di una norma che potrebbe determinare gravi conseguenze pratiche ed inconsapevoli violazioni in buona fede. Se, infatti, appare certamente giusto non consentire lo svolgimento della funzione di mediatore agli avvocati che hanno o hanno avuto “negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle parti”, più problematiche appaiono le limitazioni di cui al punto b). Secondo le previsioni di cui alla lett. b), infatti, l’avvocato – mediatore dovrebbe essere a conoscenza dell’identità di tutti i clienti assistiti, negli ultimi due anni, dai professionisti con sui si è socio o associato o con cui si esercita negli stessi locali. Gli impedimenti all’adempimento della predetta norma sono evidenti. Tale norma, di fatto, potrebbe impedire a molti avvocati di svolgere la funzione di mediatore. Non solo per le oggettive e concrete possibilità di incompatibilità che potrebbero preventivamente riscontrarsi, ma anche per il timore di affrontare il rischio di possibili sanzioni, determinate da violazioni inconsapevoli. Si pensi, ad esempio, agli studi associati con più sedi in Italia o all’estero. Si considerino, ancora, le grosse strutture che nelle grandi città offrono servizi (uffici, utenze, personale di segreteria, etc.) ai professionisti: in tali casi, può accadere di non conoscere, non solo la clientela del professionista, ma lo stesso professionista con cui si condivide l’utilizzo della struttura. La restrizione, peraltro, appare ancor più ingiusta, allorché si estende agli “ultimi due anni”. La norma potrebbe risultare eccessivamente rigorosa, allorché si pensi che l’art. 55 canone II, in relazione all’avvocato – arbitro, stabilisce che “L’avvocato non può accettare la nomina ad arbitro se una delle parti del procedimento sia assistita da altro professionista di lui socio o con lui associato, ovvero che eserciti negli stessi locali”. L’avvocato, quindi, nei confronti di chi è stato assistito due anni prima da un professionista che esercita nei suoi stessi locali, non può assumere la funzione di mediatore, ma può accettare la nomina di arbitro. Ciò, si badi, anche in relazione al fatto che il mediatore non è titolare di poteri decisori.
Il terzo canone, quindi, prevede che “L’avvocato che ha svolto l’incarico di mediatore non può intrattenere rapporti professionali con una delle parti:
a) se non siano decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento;
b) se l’oggetto dell’attività non sia diverso da quello del procedimento stesso.
Il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino negli stessi locali”.
Anche in relazione a questa previsione devono sollevarsi alcune critiche. Occorre, in proposito, evidenziare che, allo stato, l’art. 55 del codice deontologico, in relazione all’avvocato – arbitro, non stabilisce alcun divieto. Ritenendo, in ogni caso, giusto porre il divieto per l’avvocato – mediatore di intrattenere rapporti professionali con una delle parti se non siano decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento e se l’oggetto dell’attività non sia diverso da quello del procedimento stesso, appare discutibile che il divieto sia esteso “ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino negli stessi locali”. Non pare possibile, infatti, che un avvocato – mediatore possa impedire a un professionista di “intrattenere rapporti professionali con una delle parti”.
L’avvocato – mediatore, infatti, al di là di un’opera di persuasione, non ha alcun potere che possa costringere un socio o, ancor meno, un professionista che esercita negli stessi locali di assumere un incarico professionale da un soggetto per cui si è svolta la funzione di mediatore nei due anni precedenti. Poiché, peraltro, la norma disciplina la deontologia dell’avvocato – mediatore, nel caso in cui l’altro professionista assumesse l’incarico, la sanzione dovrebbe essere comminata nei confronti dell’avvocato – mediatore. Tale norma, tuttavia, sembrerebbe contraria ai principi del nostro ordinamento, poiché subordina l’applicazione della sanzione nei confronti dell’avvocato – mediatore ad un comportamento, peraltro lecito, non riferibile al soggetto destinatario della sanzione. Tale impostazione, oltre a sembrare contraria ai principi del nostro ordinamento, potrebbe porre una antinomia con l’art. 3 del codice di deontologia, allorché si prevede che “La responsabilità disciplinare discende dalla inosservanza dei doveri e dalla volontarietà della condotta, anche se omissiva”.
In relazione alla norma in commento, infatti, l’avvocato – mediatore sarebbe punito in assenza delle “volontarietà della condotta”.
Il canone IV, infine, prevede che “è fatto divieto all’avvocato consentire che l’organismo di mediazione abbia sede, a qualsiasi titolo, presso il suo studio o che quest’ultimo abbia sede presso l’organismo di mediazione”.
Si condivide la suddetta determinazione, poiché la contiguità, spaziale e logistica, tra studio e sede dell’organismo costituisce fattore in grado di profilare una ipotetica commistione di interessi, di per sé sufficiente a far dubitare dell’imparzialità dell’avvocato-mediatore. Tale divieto opera a tutela dei soggetti che fruiscono della mediazione, ma anche a tutela dei loro avvocati. La sovrapposizione tra lo studio legale e l’organismo di mediazione finirebbe per integrare una indubbia situazione di potenziale accaparramento e/o sviamento di clientela: l’avvocato ospitante od ospitato si troverebbe a godere di una rendita di posizione volta ad acquisire come potenziali clienti coloro che volessero sperimentare la mediazione o coloro che avessero frequentato l’organismo con esito negativo sul piano della conciliazione. La lettura “a caldo” della norma, quindi, spinge a non escludere che qualche avvocato – mediatore possa proporre un ricorso giurisdizionale innanzi al Tar Lazio, avverso l’approvazione delle predette norme. Nel qual caso si verificherebbe un paradossale intreccio giurisdizionale dagli esiti incerti.
6 commenti
E’ incredibile! Il CNF contro gli avvocati che fanno mediazione. Da tempo sostengo che l’avversità contro la mediazione è una guerra interna tra avvocati.
Mi complimento vivamente per l’illuminante ed esaustivo commento.
Mi pare di capire che l’incompatibilità sia limitata al caso dell’avvocato che fosse anche mediatore dell’organismo di mediazione che ha sede presso il suo studio. Sembrerebbe consentita l’ipotesi in cui l’avvocato sia socio dell’organismo ma non mediatore (ovviamente per le controversie in cui non assiste la parte).
Come e di più dei Giudici di pace, secondo me l’incompatibilità dovrebbe essere totale. O si esercita la professione di mediatore o quella di avvocato. Ci sarebbe molta meno confusione e i mediatori sarebbero molto più specializzati e preparati.
@andrea
Difatti…anche se il titolo IV dell’art. 55 bis sembra riferirsi alla figura dell’Avvocato in generale, però la circostanza che si faccia tale divieto all’interno dell’articolo dedicato alla mediazione lascia qualche perplessità interpretativa al riguardo….
L’avvocato è una nobile professione, non può e non deve accontentari delle briciole della Mediazione, comunque sono d’accordo deve optare di fare l’avvocato o il mediatore sempre e non solo in alcune circostanze.