Si può risalire a Ibn Khaldoun (Discours sur l’histoire universelle. Al Muqaddima XIVème siècle), a Cesare (De bello gallico) e a Erodoto (Historia, 414 a. C.) per delle prime letture sulle caratteristiche culturali di diversi popoli (ethnos, in greco) e le interazioni tra questi. In seguito, le memorie di diplomatici, mercanti e viaggiatori sulla via della seta e delle spezie, da Venezia alla Cina, hanno reso altre testimonianze precise sulle relazioni interculturali. Il XVIII secolo fondava tali relazioni su una certa conoscenza e tolleranza della diversità di tradizioni ed usanze, fino a sfociare nel mito del “buon selvaggio”. Diversamente, dopo l’Illuminismo, all’inizio del XIX secolo è diventata di moda la “glorificazione nazionale”, con tutte le sue trasformazioni fino al XX secolo. Attualmente, le scienze umane mettono a nostra disposizione una lettura più precisa e più elaborata delle varie differenze culturali esistenti, ivi comprese le nostre. Edward T. Hall, ricercatore ma anche “consulente della cooperazione”, si è dedicato allo studio applicato degli incontri e scontri interculturali nelle Filippine, in Medio Oriente e in America Latina. Hall ritiene che la cultura sia come la comunicazione o come la musica: . Il negoziatore interculturale è a sua volta definito come la persona che decodifica la dell’altro, il suo , divenendo così in grado di negoziare in certe società in cui il non detto è a volte più importante dell’espressione verbale. Diversi paesi del Sud e dell’Oriente sono infatti caratterizzati dalla presenza di culture che potremmo definire “del non detto”, che Hall chiama culture dal “contesto forte”, distinte da quelle “dal contesto debole”. Suggerirei, pertanto, che la negoziazione interculturale sia definita come il “processo attraverso il quale almeno due parti, aventi delle prospettive e un linguaggio culturale diversi, si sforzano di giungere ad un accordo su una determinata questione”.
Fino a pochi anni fa si pensava che tutto fosse stato detto sulle diversità culturali tra i popoli e sulla comunicazione interculturale, così come si pensava che le ricerche in questo campo avrebbero suscitato interesse solo in una cerchia ristretta di antropologi. La comunicazione interculturale, invece, è attualmente l’oggetto di una crescente produzione letteraria. Le ragioni di questo interesse rinnovato e generalizzato sono essenzialmente due: la prima riguarda le persone, la seconda i problemi, per riprendere la distinzione fatta da Roger Fisher. Il mio intervento si baserà precisamente su questa distinzione tra l’aspetto umano e l’aspetto giuridico nella negoziazione interculturale. Queste due diverse prospettive, che tratterò separatamente, vanno comune entrambe considerate all’interno di un approccio globale.
Le tecnologie, le strategie aziendali, l’informazione, le organizzazioni internazionali o semplicemente i flussi migratori mettono in contatto diretto interlocutori di diversa estrazione culturale. E’ a loro che spesso si rivolge la recente produzione letteraria e attività formativa, di origine soprattutto nordamericana, intesa a rinforzare le competenze nel settore e a ridurre l’insorgere di scontri nei negoziati per questioni culturali. Alcuni esempi, tratti dall’esperienza di paesi dall’importanza commerciale o politica strategica, possono meglio illustrare quanto detto. Il negoziatore statunitense, per esempio, che appartiene ad una società di matrice non tradizionalista, ha imparato a rispettare e interpretare il “linguaggio silenzioso” dei giapponesi (haragei), come pure ha imparato a chiedersi quali sono le fondamenta di questa società . Lo statunitense sente la necessità di allargare la propria cultura generale per essere all’altezza del suo nuovo ruolo internazionale. Al fine di soddisfare tale necessità , nel 1994 la American Bar Association ha pubblicato una guida dettagliata relativa ad una ventina di Paesi: A Comparison of Cross-cultural Issues and Successful Approaches. In Europa, invece, il movimento è meno pronunciato, è più informale, anche perchè le relazioni interculturali non sono necessariamente internazionali, esse iniziano verosimilmente all’angolo della strada.
L’interazione sempre maggiore tra popolazioni di cultura diversa ha fatto nascere problemi con una valenza sempre più marcatamente culturale, o perlomeno li ha portati ad essere percepiti come tali. A conferma di quanto detto si possono addurre vari esempi: la difesa delle identità linguistiche e culturali particolari, i diritti delle minoranze, i diritti dell’uomo, l’applicazione della sharia, i simboli sulle bandiere, l’unificazione dell’Europa e i suoi aspetti culturali, l’eccezione culturale nell’ambito dell’ “Uruguay Round”, il controllo delle nascite, l’omogeneizzazione etnica forzata, l’uso del chador, la presenza del crocefisso nelle scuole, i canali di informazione, lo stato di diritto; sembra che il mondo sia impegnato in un colossale negoziato ove la posta in gioco è di ordine culturale. I negoziatori giocano col fuoco, si tratta infatti di conciliare l’affermazione di particolarismi estremi con la dilagante tendenza all’ uniformizzazione globale, le passioni vere con quelle finte.
Eppure, la maggior parte degli specialisti nella negoziazione interculturale ammette solamente la diversità culturale esistente tra i negoziatori. Non ci si interessa in modo specifico alle variabili giuridiche che possono influenzare il comportamento dei negoziatori, ma si fanno solamente delle generiche raccomandazioni alla comprensione e gestione più efficace del fattore culturale. Abbiamo quindi da una parte gli specialisti della negoziazione e dall’altra parte gli specialisti del diritto.
Il negoziatore, però, ed in particolar modo il giurista, qualunque sia la sua provenienza, deve poter identificare e superare non soltanto i conflitti interculturali che gravitano attorno agli individui (in relazione allo spazio e al tempo, ai vari status e stili), ma anche i conflitti di qualificazione del problema posto e delle norme da applicare.
Il negoziatore deve interrogarsi sugli aspetti giuridici, sui fondamenti del diritto altrui, e se questi sono di matrice culturale diviene difficile “l’essere morbidi con le persone” e “severi con il problema”, in quanto il problema si manifesta come soggettivo, è cioè legato all’uno o all’altro degli interlocutori e quindi è più difficile da isolare. In genere, infatti, non si negoziano le convinzioni personali, l’educazione dei propri figli o i propri gusti artistici come si negozia un contratto di locazione o l’acquisto di un sacco di cemento.
Supponiamo che un dipendente malgascio a Roma cerchi di ottenere dal suo datore di lavoro italiano un aumento di stipendio. Siamo di fronte in questo caso ad un negoziato interculturale, data la provenienza dei protagonisti. Supponiamo ancora che il signore italiano negozi con un ministro del Madagascar l’acquisto di una rete televisiva. Lo scambio è interculturale per la provenienza delle parti, ma lo è ancor più per quanto riguarda l’oggetto della negoziazione. Un terzo esempio molto più comune e illuminante potrebbe essere l’acquisto di un terreno per la costruzione di un albergo. L’investitore straniero non è in grado di decifrare immediatamente la dimensione culturale, le leggi o i costumi che regolano la fattispecie. Ora, la terra nel Madagascar è carica di significati e di rituali, come per esempio la riesumazione regolare dei morti. Di fatto e di diritto, uno straniero può difficilmente acquistare un lotto di terra, anche se le nuove riforme e la transizione verso un’economia di mercato attualmente aumentano le possibilità di farlo. In ogni caso, il negoziatore deve preoccuparsi costantemente della posizione del sistema giuridico dell’interlocutore.
Alla luce di queste considerazioni, se viene insegnato agli italiani e ai malgasci a comprendersi reciprocamente essi progrediranno nei loro scambi, anche se non avranno ancora acquisito il metodo giuridico che permetterebbe loro di risolvere i problemi di natura culturale. Viceversa, il solo dominio della scienza giuridica comparata, internazionale, “conflittualista” o antropologica, non basterà se non accompagnata da un savoir faire interculturale.
Vi sono numerosi negoziatori, consulenti o funzionari, che non dedicano molto tempo a studiare gli individui e i problemi all’interno dei loro contesti. Tentare di integrare nei sistemi sociali in crisi comportamenti e leggi senza un’adeguata preparazione e senza un successivo monitoraggio è controproducente. Tuttavia, nei paesi in transizione ed in via di sviluppo prestano la loro opera diversi professionisti, dai mediatori interculturali ai traduttori fino a prestigiosi giuristi, ed è grazie all’attività di queste persone che potrebbe avere successo il processo attuale di acculturazione alla democrazia ed all’economia di mercato. L’attività formativa da noi fornita cerca di soddisfare proprio questa duplice esigenza.
3.2.2 La negoziazione interculturale dal punto di vista sociale
Iniziamo quindi con la portata dell’impatto culturale umano sulla negoziazione. I vari autori che hanno scritto su questo argomento non concordano sulla definizione di “cultura” e di negoziazione. A prescindere da tali problemi definitori, quello che si vuole determinare in questa sede è il profilo culturale del gruppo cui appartiene il negoziatore e le sue possibili ripercussioni. Per i “culturalisti”, i comportamenti umani variano essenzialmente in funzione dei modelli culturali presenti in ciascuna società .
Secondo Russel B. Sunshine, i valori culturali (credenze, norme, usanze) comportano una prospettiva (punti di vista, presupposti, percezione selettiva) che a sua volta tende a dare forma ad un certo stile di negoziazione, per esempio tedesco, italiano, francese; in altre parole, essa dà vita a diverse modalità di comunicazione e di decision making. Tale prospettiva precede generalmente i valori e le norme culturali, in quanto i presupposti di base di un popolo dipendono dal modo in cui esso risolve i problemi legati al suo ambiente. L’antropologia illustra questi approcci: temperamento affabile o neutrale, status e forme di autorità , strutture e pratiche sociali, tipo di organizzazione familiare (patriarcale/matriarcale) o socioeconomica (nomade/sedentaria); siffatti elementi determinano le scelte culturali di una società a vantaggio o a svantaggio della negoziazione. Per un banchiere che concede o ristruttura crediti, la conoscenza dei legami familiari di alcuni clienti risulta di grande utilità . Tale conoscenza s’impone nei paesi in cui potere politico e potere parentale non sono differenziati, come nei Paesi del Golfo Persico.
Raymond Cohen, per esempio, nei suoi studi sul conflitto arabo-israeliano descrive le dissonanze tra il comportamento diretto degli israeliani (low context) e l’approccio degli egiziani (high context), attribuendole a degli elementi specifici della cultura di ciascuno di questi popoli.
Tuttavia la marea concettuale e lo straripamento verso discipline già esistenti inducono gli scettici come W. Zartman a dubitare della possibilità di valutare l’impatto della cultura sulla negoziazione. Ma di quale cultura stiamo parlando? Come prevedere o addirittura distinguere in un interlocutore ciò che è da attribuirsi alla cultura da ciò che dipende dalla sottocultura personale, regionale, religiosa, professionale, politica, aziendale, minoritaria, popolare, elitaria, mista? Cerchiamo di capire quanto detto con un esempio relativo a due personalità impegnate in importanti negoziati interculturali: l’una è il segretario generale dell’ONU, l’altra è il responsabile dell’ufficio legale e vicepresidente anziano della Banca Mondiale.
Sapendo che Boutros-Ghali e Shihata sono entrambi egiziani, potremmo determinare quale sarà il loro comportamento in veste di negoziatori? E’ necessario conoscere altri dati culturali, e quali? La loro formazione? Il loro credo? Avrebbero tali dati un effetto a priori negativo o positivo sui negoziati? E perchè? Qual è la parte della psicologia, della storia familiare, professionale, da tenere in considerazione? Essendo questi due negoziatori concisi e precisi, possiamo sostenere che essi non sono autenticamente egiziani, che sono cioè “occidentalizzati”? La concisione e la precisione sono tratti esclusivamente occidentali? Essi rappresentano delle eccezioni rispetto all’egiziano medio o, al contrario, sarebbero dei modelli di quanto l’Egitto può produrre? Durkheim ritiene che una società si definisce non attraverso l’uomo medio, bensì attraverso gli individui rappresentativi. Per di più, è il caso di considerarli arabi, africani e/o mediterranei, membri di diverse comunità religiose? Va detto, in ogni caso, che un’identità si evolve, si va plasmando nell’interazione. Nel Vicino Oriente essa non si vaglia sulla base di una scala semplicistica e ciò è altrettanto vero per i paesi dell’Europa dell’Est che in meno di sei anni hanno cambiato i loro riferimenti culturali.
Inoltre, nel Sud del mondo i problemi socioeconomici sono di un’entità talmente grave che ci sentiamo indotti a chiederci se essi non comportino dei più gravi problemi culturali. Più di due miliardi di persone vivono in condizioni di povertà e circa un miliardo di adulti sono analfabeti. Come si può essere in grado di apprezzare il fattore culturale, tenendo conto di tutti questi elementi?
Di fronte a tante incertezze, W. Zartman accantona il fattore culturale. Altri risolvono il problema integrando nell’analisi di questo vari elementi come la storia, per non attribuire al gruppo, cui si rifà l’interlocutore, delle caratteristiche strutturali errate. La cultura, difatti, può rappresentare anche una “prigione” in cui il negoziatore rinchiude l’altra parte. Ora, “ogni negoziatore ha una personalità propria, ogni negoziatore è in se una cultura” e, secondo Pierre Casse, tutte le negoziazioni sono, a certi livelli, interculturali.
Non è possibile illustrare un approccio metodologico in pochi minuti. Mi limiterò a dire che esistono quattro stili da poter adottare nei negoziati: il fattuale, che è preciso, induttivo e produttivo di risultati (raffigura il modello del commerciale statunitense); il normativo, che è relazionale (rimanda alla comunità , all’armonia, alla conciliazione, tipico dell’Asia); l’intuitivo, che è creativo, previdente, vivace (richiama la tendenza artistica degli italiani); l’analitico, che è ordinato, organizzatore, paziente (evoca un tipico ingegnere svizzero o tedesco). Questa sintesi enuclea sostanzialmente degli stereotipi. In realtà , in ognuno di noi vi è un po’ dei quattro stili, anche se alcuni prevalgono sugli altri. Ognuno di questi stile presenta dei vantaggi e degli inconvenienti. E’ bene saperli riconoscere e sapersi destreggiare sull’intera gamma di stili, identificando anche quelli dell’interlocutore.
Una più profonda conoscenza di sè e dell’altro accresce la capacità di previsione, essenziale per il negoziatore e per la scelta di strategie appropriate. Lionel Bellenger distingue due strategie fondamentali: quella dell’impegno (iniziativa, offensiva) e quella del controllo (attesa, calcolo). La mancanza di tempo non mi consente di descriverle, mi servirò quindi di due sole parole per definirle: la boxe e lo judò. Sembra che alcune culture facciano appello più all’una che all’altra. Per questo motivo il negoziatore, a prescindere da quale sia la sua strategia, deve essere in grado di affrontare una strategia diversa a seconda della situazione. Si raccomanda, pertanto, al negoziatore di arrivare al dominio di entrambe le tecniche, poichè potrebbe essere spiazzato da un avversario abile in quella che a lui è poco familiare.
3.2.3 La negoziazione interculturale dal punto di vista giuridico
Essendo la differenza di cultura percepita come un ostacolo ad una buona comprensione dei problemi, i negoziatori cercheranno delle soluzioni per superare tali barriere. L’abilità del negoziatore e il suo spessore qualitativo verranno giudicati in base alla sua capacità di costruire dei “ponti”, dei canali di comunicazione. Tali ponti sono in relazione con le norme e con le giurisdizioni. Ma non ci sono solo dei ponti, vi sono anche dei tunnel oscuri. Cominceremo dai ponti per poi imboccare il tunnel, assicurandovi che ne usciremo ben presto.
La diffidenza reciproca può riguardare la legge applicabile e le giurisdizioni competenti, due clausole classiche da negoziare nei contratti internazionali.
Dal punto di vista dei principi e della legge applicabile, le diversità e il pluralismo presenti all’interno di un paese in via di sviluppo risultano sconcertanti per il negoziatore europeo non avvezzo a tali contesti. M. Chiba, giurista giapponese, fa una distinzione tra due tipi di diritto: in primo luogo il diritto ufficiale, sancito dall’autorità statale, che comprende il diritto dello Stato, diritto recepito e trasformato a partire dalla colonizzazione, ma anche diritto religioso o delle minoranze etniche. In secondo luogo, un diritto non ufficiale, un sistema giuridico informale che viene praticamente applicato da un gruppo sociale per consenso. Inoltre, perchè tale sistema dualista sia operante, si fonda su principi come l’equità , su alcuni precetti religiosi e sul diritto naturale. Molte nozioni, però, sono sconosciute ai diritti tradizionali, per esempio il concetto di “persona giuridica” del diritto moderno. In queste condizioni culturali la coerenza del sistema risulta fragile. Secondo Santi Romano, l’ordine giuridico non consiste solo nella norma affermata, ma anche nell’entità che la afferma. Ora, certi stati del Sud e dell’Est soffrono del disfacimento delle loro istituzioni. Un esempio è dato dall’istituto della proprietà che in questi Paesi, come ovunque, deve essere definito in tutta la sua portata e nei suoi limiti.
Il pensiero religioso esprime un modo di concepire l’universo tipico di una comunità umana più o meno grande. La sharia, per esempio, divide il mondo in due zone: il territorio dell’Islam ed il territorio di guerra (dar el harb). Un’applicazione rigorosa (senza ijtihad) di tale concetto rende sospetto tutto ciò che proviene dal dar el harb. A mo’ di esempio, un giudice non musulmano non potrà giudicare un musulmano, prevale la prova di un testimone maschio e musulmano. Al momento, solo in pochissimi paesi tali norme trovano ancora applicazione. Esse attestano comunque l’esistenza di norme culturali difficilmente accettabili per altri protagonisti e sistemi. A Vienna, durante la conferenza mondiale del 1993, senza la saggezza transculturale del Segretario Generale dell’ONU il consenso mondiale sui diritti dell’uomo ha rischiato di saltare. L’universalismo del 1948 non è più di attualità . Sembra che ci stiamo dirigendo verso ciò che Hassner chiama un .
Persino in ambito commerciale i contraenti di due paesi moderni, ma di cultura giuridica diversa, fanno riferimento nel loro contratto ai principi generali del diritto, o ai principi comuni dei loro diritti, invece di assoggettarsi completamente all’uno o all’altro diritto. Ricorreranno per esempio ai modelli contrattuali della Camera di commercio internazionale, ai “Principi relativi ai contratti del commercio internazionale” elaborati di recente dall’UNIDROIT. Tali principi possono essere assunti da tutte le culture giuridiche, poichè garantiscono l’equità , indicano chiaramente l’obbligo di agire in buona fede ed impongono, in casi specifici, dei criteri di comportamento ragionevoli. Tuttavia, poco convinto della veridicità di queste formule nei paesi in via di sviluppo, lo straniero che negozia la clausola sulla legge applicabile cercherà di collocarsi, per quanto possibile, sotto un diritto che lo rassicuri.
Il potere giudiziario è spesso subordinato al potere esecutivo. Per esempio, il giudice, o l’avvocato dei paesi del Golfo è sovente un immigrato la cui sopravvivenza professionale non è garantita. La sua sorte è, tuttavia preferibile a quella dei suoi colleghi del Mali o della Cambogia. L’arbitro può sembrare, in questi casi, la persona più idonea ad evitare rischi. Rammentiamo che in molte legislazioni sull’arbitrato internazionale, come sottolinea il Professor Piero Bernardini nella sua analisi della legge italiana, l’arbitro può decidere di basarsi sulle norme piuttosto che sulle leggi, per cui sorge un dubbio relativamente all’imparzialità dell’arbitro in funzione della sua nazionalità . La preoccupazione di un avvocato del Sud del mondo sarà così forte da spingerlo ad opporsi alla designazione di un arbitro di nazionalità europea, adducendo a pretesto il fatto che anche la controparte è europea. Man mano che aumenta il numero di arbitri del Sud, la diffidenza si attenua. Comunque la diffidenza non è prerogativa solo di questa zona del mondo. Per esempio, è previsto nel contratto Euro-Disney che ” … nessun arbitro sarà di nazionalità francese o statunitense”. La diffidenza non ha carattere solo transnazionale, si può presentare anche all’interno di uno stesso paese, come illustrato dal dibattito negli Stati Uniti sull’affirmative action (la cosiddetta “discriminazione correttiva”).
Parlavo prima di ponti e di tunnel. Questi sono quindi i ponti, affrontiamo ora i tunnel. Il primo riguarda la collocazione del negoziatore interculturale. Il ruolo del negoziatore è a volte ambiguo: “attività discreta, relazioni, adattabilità , ricevimenti, anticamera e contatti.” Quando la negoziazione è condotta in un paese in via di sviluppo e la concorrenza è forte, è grande la tentazione di risolvere le difficoltà corrompendo l’interlocutore. Il millantato credito può, tra l’altro, essere ammesso dalla cultura di un paese, travestito da “funzione latente di utilità sociale”, quindi come un dono.
La nozione di interesse generale o di servizio pubblico viene a volte falsata dalla situazione economica di degrado e dalla necessità di gesti di solidarietà più immediati e concreti. Tali comportamenti, inoltre, non sono estranei alle usanze commerciali internazionali. Quali sono, quindi, i limiti all’empatia del negoziatore interculturale? Fino a che punto può arrivare la sua adattabilità ? Il giurista non può ignorare queste pratiche e deve cercare di indirizzare correttamente il negoziatore, o il suo mandante, se questi hanno perso i propri punti di riferimento. Ma in nome di quale cultura, di quale diritto, dato che questi “doni” sono rapportati ad un’azione localizzata fuori dal territorio nazionale, in un paese dove tale iniziativa non necessariamente è punibile? Il diritto penale di parecchi paesi europei rimane indifferente a tale situazione e per questo motivo Bruno Oppetit raccomanda ai legislatori di rifarsi alla legge americana del 19 dicembre 1977 (Foreign Corrupt Practices Act) che condanna la corruzione ed anche il tentativo. Naturalmente non mancano le dichiarazioni solenni, i codici di condotta, le risoluzioni ed i principi direttivi, ma in mancanza di un diritto coercitivo ci si rende conto che i “principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civilizzate” non sono che lettera morta. L’integralismo che si sviluppa attinge la propria forza proprio da questo malcostume, corruttori e corrotti vengono confusi in una stessa cultura “di satana, sesso e denaro”.
Ad alcuni chilometri da noi, nella ex Iugoslavia, ogni civile bosniaco, croato o serbo è ridotto a elemento di un gruppo, e come tale a respingere l’altro o ad essere respinto, a uccidere o ad essere ucciso. La sua individualità , così come la sua appartenenza alla comunità umana, vengono negate. In questo caso, come sempre, il negoziatore o mediatore deve assolvere il difficile compito di mettere in risalto gli argomenti di interesse comune preservando, nel contempo, le singolarità . La grande linea sismica di scontri culturali che percorre il pianeta, dal Caucaso a Los Angeles, non passa molto lontana dall’Italia. Da qui l’importanza della crescita del numero di negoziatori e conciliatori italiani e dell’area mediterranea che si impegnino nell’elaborazione degli strumenti tecnici e giuridici per un’armonizzazione interculturale.
Non possiamo abbracciare la diversità dei temi relativi ai negoziati interculturali, la cui area offre ancora delle vaste fonti di ricerca e di pratica. In mancanza di un vero approfondimento, spero almeno di aver suscitato il vostro interesse. Credo che questo seminario possa rappresentare un importante contributo in questa direzione.