Tre domande sono alla ricerca di una risposta intorno alla mediazione civile e commerciale: 1) Ce ne era veramente bisogno? 2) Si poteva fare? 3) A che serve? A queste domande l’opinione pubblica2, non meno che la dottrina e la giurisprudenza, rispondono in maniera eterogenea. A me sembra che cercare risposte coerenti sia il punto di partenza per il migliore inquadramento teorico dell’istituto, ed al contempo il punto di arrivo per il suo più concreto ed efficiente utilizzo. Cercherò dunque di trovare un equilibrio tra le alternative, seppure con la consapevolezza di esprimere opinioni che non escludono l’opposto. Sono fin troppo evidenti (allo stato attuale) i condizionamenti, le prese di posizione, le convinzioni di principio, per esprimere giudizi pienamente favorevoli o contrari.
Sul fenomeno conciliativo non si vive una esperienza del tutto positiva, né del tutto negativa. Pregi e difetti della mediazione, vantaggi e svantaggi: su questo tortuoso percorso cercherò una linea comune. Nel fare ciò, non è mia cura occuparmi di specifici problemi tecnici del d.lgs. n. 28/2010. Come tutte, anche questa normazione è fatta di pecche, di lacune e di eccessi, di vizi del diritto positivo che già danno mostra di sé nelle prime esperienze applicative3. Su talune scelte normative. Mi riferisco, ovviamente, alla nuova disciplina della mediazione generalizzata a tutta la materia civile e commerciale dal d.lgs. n. 28/2010 e dai suoi decreti ministeriali attuativi nn. 180/2010 e 145/2011 (quest’ultimo modificativo del primo). Trattasi di fenomeno al centro dell’attenzione di tutti i cittadini, oltre che del mondo giuridico. Fenomeno dai mille risvolti teorico-pratici, le cui vicende quotidiane interessano i giornali di attualità quanto le riviste giuridiche. Un cenno per tutti al problema della trascrizione. Ancorché il d.lgs. n. 28/2010 – nel prevedere che “se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’art. 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato” (art. 11 comma 3 d.lgs. cit.) – renda evidente l’intenzione di equiparare, quanto alla trascrivibilità, l’accordo conciliativo alla sentenza (contemplando la possibilità della trascrizione del primo così come è trascrivibile la seconda) l’esperienza pratica sta mostrando non poche difficoltà per procedere alla trascrizione, ed in ogni caso non pochi limiti dell’effetto che l’accordo conciliativo è in grado di produrre rispetto all’equivalente effetto della sentenza.
Innanzi tutto, la legge, rinviando all’art. 2643 c.c., consente la trascrizione solo degli atti ivi elencati, non anche di tutti gli altri trascrivibili (così ad esempio, gli artt. 2645, 2645 bis, 2645 ter, 2647, 2648, 2649 c.c.). Non esita la dottrina a ritenere che la medesima disciplina vada estesa a tutti gli altri atti soggetti a trascrizione (Luiso, Diritto processuale civile, ed. 2011, vol. 5, in corso di pubblicazione; Brunelli, Commento all’art. 11, in La nuova disciplina della mediazione delle controversie civili e commerciali, a cura di Bandini e Soldati, Milano, 2010, 201 ss., spec. 214; Tiscini, La mediazione civile e commerciale. Composizione della lite e processo nel d.lgs. n. 28/2010 e nei DM nn.
Mi soffermerò solo per incidens; la mia è una riflessione che va oltre la soluzione contingente e che punta alla mediazione quale fenomeno sociale, oltre che tecnico-giuridico4. Ma è anche una testimonianza su di un percorso culturale che mi ha portato, in quindici anni – da quando in una precedente esperienza istituzionale mi accostai per la prima volta al problema, ad oggi – a maturare la convinzione che la mediazione civile e commerciale debba essere intesa non tanto come una giustizia alternativa, quanto come un’alternativa alla giustizia. Nel 1996, come ministro della giustizia all’epoca, avevo infatti costituito un gruppo di lavoro con il compito di procedere allo studio e alla elaborazione di soluzioni concrete sui sistemi di accesso alla giustizia, nonché alla individuazione di strumenti efficaci, non giurisdizionali, di composizione delle liti civili. Si ritenne allora che fosse necessario, anche alla luce delle strategie perseguite negli altri paesi, riconsiderare la filosofia che ispirava il rapporto tra cittadini e giurisdizione, secondo nuove linee essenziali, indicate in estrema sintesi in una duplice prospettiva.
In primo luogo, di fronte alla domanda di giustizia dei cittadini lo Stato deve assumere il compito di farsi promotore di una soluzione autodeterminata del conflitto, in quanto essa è comunque nella maggior parte dei casi la migliore soluzione possibile. In secondo luogo, devono essere garantiti e incentivati dei percorsi di fuoriuscita dalla definizione contenziosa del conflitto; è necessario ripensare al valore costituzionale del diritto al processo come diritto all’utilizzazione di un bene la cui fruibilità per tutti i cittadini non è illimitata e quindi non può porsi in contrasto con l’interesse generale. I lavori di quel gruppo (il c.d. gruppo Mirone) vennero condotti attraverso la ricognizione delle varie esperienze spontanee ed istituzionali in materia di conciliazione ed arbitrato, muovendo dai lavori di una commissione (la commissione Fazzalari) che aveva elaborato nel 1994 uno schema di disegno di legge. Si giunse così a delineare un’ipotesi di disciplina generale della risoluzione 180/2010 e 145/2011, Torino, 2011, 259). Nella pratica però si sta riscontrando una certa ritrosia delle conservatorie ad offrire la medesima interpretazione (il che ha un suo perché, tenuto conto delle rigidità dei sistemi di pubblicità degli atti), e quindi la tendenza delle stesse conservatorie a rifiutare la trascrizione di accordi conciliativi diversi da quelli con contenuto corrispondente agli atti indicati nell’art. 2643 c.c. D’altra parte, rispetto all’opponibilità ai terzi della sentenza, molto più limitate sono le garanzie che assicura l’accordo conciliativo, non potendo esso produrre il cd. l’effetto prenotativo riconosciuto alla trascrizione della domanda giudiziale, qualora essa sia seguita dalla trascrizione della relativa sentenza (art. 2652 c.c.). Né per assicurare questo effetto può invocarsi l’art. 5 comma 3 d.lgs. cit. che consente la trascrizione della domanda giudiziale, pure in pendenza di procedimento conciliativo, trascrizione che comunque è destinata a restare priva di effetti se non seguita (qualora le parti si accordino in sede conciliativa) dalla trascrizione della sentenza (per questi problemi, vd. Tiscini, La mediazione civile e commerciale, cit., 166 e 260). Per la prima giurisprudenza sul tema, vd. Trib. Roma 22 luglio 2011, che nega la trascrizione di un accordo conciliativo avente ad oggetto l’accertamento dell’intervenuta usucapione del diritto di proprietà (o di altro diritto reale di godimento) sul presupposto che non si tratti di un accordo coincidente con uno degli atti di cui all’art. 2643 c.c. “perché non realizza un effetto modificativo, estintivo o costitutivo, ma assume al contrario il valore di un mero negozio di accertamento, con efficacia dichiarativa e retroattiva finalizzata a rimuovere l’incertezza mediante la fissazione del contenuto della situazione giuridica preesistente”.
Ce ne era veramente bisogno?
È una domanda che stimola le reazioni ostili degli oppositori, i quali senza indugio suggeriscono una risposta negativa. In fondo, si viveva bene anche prima (anzi, meglio), quando nessuna condizione di procedibilità si imponeva per regola generale alla domanda giudiziale ed il fenomeno conciliativo (noto in ambiti circoscritti5) era monopolio del giurista. Per guardare più obiettivamente allo stato delle cose, occorre invece muovere dall’esperienza comunitaria. Non era e non è vincolante il fatto che in molti altri paesi d’oltralpe (soprattutto nel mondo anglosassone) la mediazione funziona da tempo quale efficiente strumento di soluzione del contenzioso. Il nostro sistema è radicato su strutture molto diverse da quelle anglosassoni, né ha le dimensioni ed i numeri per recepire agilmente i tipici modelli conciliativi nordamericani, consolidatisi sotto ben altra luce.
Non basta guardare all’esperienza degli altri paesi, per ritenere che altrettanto si sarebbe dovuto fare nel nostro. Ciò almeno per due ragioni: sia, perché nel mondo anglosassone l’affermarsi del fenomeno conciliativo è frutto di una cultura molto diversa; sia, perché non è detto che quella stessa esperienza sia facilmente riproducibile in Italia. Non basta quindi invocare il fatto che in tanti altri paesi la mediazione già funzioni da anni, per ritenere che anche nel nostro fosse necessario (per maturità dei tempi) introdurre una analoga disciplina a carattere generale. A vincolare verso l’adozione di una regolamentazione generalizzata del fenomeno conciliativo conduce invece l’esperienza europea, con la quale l’Italia non poteva non confrontarsi. Da anni l’ordinamento comunitario vive il problema delle ADR come una “priorità politica”8. Verso l’esigenza di rivalutare il modello specifico della mediazione conduce il Libro verde predisposto dalla Commissione nel 2002 e volto a disciplinare i “modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale”, ad esclusione dell’arbitrato propriamente detto (trattasi di modello consapevolmente allontanato da quello arbitrale, per l’attitudine di quest’ultimo a decidere una controversia, a differenza del primo il cui scopo è favorire l’incontro delle volontà tra i contendenti).
D’altra parte, anche sul fronte europeo, qualora l’esigenza di promuovere la mediazione fosse rimasta un criterio di indirizzo programmatico, nessun vincolo avrebbe visto come destinatario lo Stato italiano. Passo determinante è invece l’approvazione della direttiva comunitaria n. 2008/52/CE9. E’ innegabile – e la prevalente dottrina non lo nega – che ad ispirare il legislatore delegante, prima (l. n. 69/2009), e quello delegato, poi (d.lgs. n. 28/2010), vi sia proprio l’esigenza di recepire nel diritto interno molte delle scelte provenienti dall’esperienza europea, concretizzatesi nella direttiva n. 2008/52/CE (non è un caso che diversi istituti di quest’ultima siano stati assorbiti in nella disciplina nazionale).
Vi è tuttavia chi critica l’opportunità di costruire un filo rosso tra normativa comunitaria e d.lgs. n. 28/2010, sul presupposto che, mentre la prima è pensata per le “controversie tranfrontaliere”10, la seconda si occupa del problema in misura minimale11. E’ sufficiente questo per negare qualsiasi rapporto di derivazione tra normativa comunitaria e normativa interna? Ovvero, ancora prima, è sufficiente questo per negare che lo Stato italiano fosse vincolato ad adottare una disciplina omnibus sulla mediazione? Entrambi i quesiti meritano risposta negativa. Il primo, perché nelle scelte specifiche del decreto delegato è evidente la volontà di dare al diritto nazionale la stessa impronta che la direttiva offriva a livello europeo (si pensi al tema della riservatezza, alla mediazione delegata dal giudice, all’amministrazione della procedura ad opera di appositi organismi). Il secondo, perché, pur essendo innegabile che il vincolo per lo Stato italiano a recepire la direttiva comunitaria era concreto ed attuale solo per i profili transfrontalieri delle controversie, è altrettanto evidente che tali profili non avrebbero potuto ricevere compiuta trattazione in mancanza – a monte – di una legge interna volta a regolare in misura corrispondente le controversie nazionali.
In altri termini – pure essendo innegabile che sarebbe stato opportuno, da parte del d.lgs. n. 28 cit., un più compiuto esame dei profili transfrontalieri, perché era di questi che il diritto interno si sarebbe dovuto occupare principaliter quale risposta alle istanze comunitarie – è altrettanto innegabile che per lo Stato italiano era obbligata la scelta di offrire una disciplina compiuta del modello conciliativo: in prima battuta per le controversie interne e poi – secondariamente – per quelle transnazionali12.
Sarebbe stata una riforma parziale, zoppa e dunque destinata al sicuro insuccesso quella che si fosse concentrata sui profili internazionali ed al contempo si fosse rifiutata di promuovere il fenomeno a livello interno. La continuità tra il d.lgs. n. 28/2010 e la Direttiva 2008/52/CE è quindi evidente; l’intervento nazionale è con ciò necessitato rispetto a quello europeo. D’altra parte, tale continuità trova conferma nella stessa direttiva, la quale ammette esplicitamente che “le disposizioni della presente direttiva dovrebbero applicarsi soltanto alla mediazione nelle controversie transfrontaliere, ma nulla dovrebbe vietare agli Stati membri di applicare tali disposizioni ai procedimenti di mediazione interni” (considerando n. 8).
Perciò, “ce ne era veramente bisogno?”. La risposta che suggerisce il fronte comunitario è senz’altro positiva, dal momento che prima o poi anche l’Italia avrebbe dovuto adeguarsi alle esigenze europee. Se non è questa la legge di recepimento della direttiva 2008/52/CE, un’altra legge di contenuto similare avrebbe dovuto essere approvata entro il 2011; ed oggi (a prescindere dalle specifiche soluzioni di diritto positivo adottate nel d.lgs. n. 28 cit.) ci troveremmo comunque a combattere con una legge omnibus sulla mediazione13. Sicché, non solo “ce ne era bisogno”, ma anche “era proprio necessario”.
Al medesimo interrogativo (“ce ne era veramente bisogno?”) occorre dare risposta anche sotto il profilo dei precedenti di diritto interno. Tante le leggi speciali che conoscevano in passato modelli conciliativi di diverso tipo (obbligatori, facoltativi, condizioni di procedibilità della domanda giudiziale, condizione di proponibilità, conciliazioni amministrate ecc.). Tra tali modelli primeggiava quello del processo del lavoro, per il quale non si era esitato – sul finire degli anni ’90 – ad introdurre l’obbligatorietà del tentativo14; ma le sue peculiarità non consentono oggi di farne lo schema guida per la migliore lettura del vigente sistema. Paradossalmente, la Relazione illustrativa al d.lgs. n. 28/2010 conduce verso conclusioni contrarie, assumendo expressis verbis il tentativo obbligatorio di conciliazione di estrazione lavoristica (nella sua versione ante l. n. 183/2010) quale modello di riferimento (soprattutto in punto di obbligatorietà del tentativo)15. Tuttavia, per la conciliazione del lavoro si impone un discorso a parte, in conseguenza della natura delle relative controversie; in esse il forte squilibrio nei rapporti sostanziali è la ragione delle conseguenti scelte in punto di procedura (qui il rito è disegnato sulle peculiarità del diritto sostanziale16 e la sua esportabilità oltre la materia incontra le difficoltà dovute all’applicazione a diritti sostanziali di diversa natura17).
Altri sono invece i modelli che hanno aperto la strada a quello attuale, e rispetto ai quali occorre chiedersi se il transito per una disciplina generale sulla mediazione costituisse un passaggio obbligato. Il riferimento è al sistema camerale conciliativo ed a quello societario, sia l’uno che l’altro in qualche modo qualificabili come “precedenti” dell’istituto vigente.
Il sistema camerale. Da anni l’attività delle camere di commercio riveste un ruolo dominante nell’esperienza conciliativa: non solo perché plurime leggi speciali prevedevano in passato forme di conciliazione stragiudiziale (obbligatorie o facoltative), rinviando alle Commissioni istituite presso le camere di commercio18; ma anche perché i dati statistici dimostrano come, laddove al cittadino era lasciata la scelta nel prediligere una via autonoma ovvero proporre le istanze presso le commissioni camerali, l’opzione pendeva a favore di queste ultime19. In altri termini, la preferenza per il sistema camerale è stata segnata, in passato, non solo da esplicite scelte del legislatore ordinario (che ha spesso richiamato il modello camerale, piuttosto che crearne di nuovi); ma anche dalla volontà dei singoli, i quali, posti di fronte all’alternativa, non hanno esitato a privilegiare tale sistema rispetto agli altri pure prospettati ex lege.
La conciliazione societaria. E’ questo l’altro esplicito tentativo di promuovere il fenomeno conciliativo, individuandolo (seppure in forma facoltativa) quale modello per tutte le controversie societarie (artt. 39 – 40 d.lgs. n. 5/200321). Trattasi di schema che è confluito per diversi profili nel d.lgs. n. 28/2010; e che perciò ha operato quale modello ispiratore22rispetto a quest’ultimo. Questi i precedenti che hanno anticipato il decreto delegato e quest’ultimo ne è la riproduzione, seppure in una versione generalizzante; sistemi tutti di media-conciliazione “amministrata”, in cui la via conciliativa è percorsa tramite appositi organismi che se da un lato aggravano il problema dei costi, dall’altro offrono maggiori garanzie di serietà ed efficienza del servizio.
Torno all’interrogativo iniziale. “C’era veramente bisogno” di una rivoluzione normativa come quella operata dal d.lgs. n. 28 cit. nel diffondere il fenomeno conciliativo (spesso ponendolo come obbligatorio) ad una vasta gamma di materie? Anche qui la risposta è positiva. Non si parla ovviamente di “necessità”; non si può certo dire che questo tipo di riforme fosse una strada “obbligata”23nell’economia generale dell’evoluzione normativa. Si può però parlare di “opportunità”, essendo ormai maturi i tempi per una riforma capace di generalizzare la mediazione amministrata già conosciuta nell’esperienza camerale non meno che in quella societaria.
Anche da questo punto di vista, dunque – pure prescindendo dalla tecnica legislativa, dalle modalità con cui è stata data concreta attuazione al programma – era opportuna una nuova disciplina sulla mediazione, la quale, confermando le felici24 esperienze societaria e camerale, ne portasse a compimento il disegno evolutivo. Essendo ormai maturi i tempi in questa direzione, bene ha fatto il legislatore ad ispirarsi a quei modelli. Ogni diversa soluzione – affidarsi all’indiscriminato proliferare di tante media-conciliazioni nella frammentaria legislazione speciale – avrebbe prodotto fragili risultati.
Il passaggio dai preesistenti modelli di legislazione speciale a quello attuale insinua piuttosto un dubbio. Mi chiedo se sia stata opportuna la scelta legislativa (mi soffermo così su un profilo di cui non intendo occuparmi se non per cenni) di aprire le porte della mediazione ad organismi privati e pubblici diversi da quelli (noti) societari o camerali e da quelli facenti capo agli ordini professionali. Non era forse meglio iniziare il nuovo percorso avvalendosi delle poche istituzioni già esistenti, senza lasciare che il mercato si ingolfasse della pluralità di organismi attualmente accreditati? Vi è oggi un vero e proprio sovradimensionamento del Registro depositato presso il Ministero, contenente l’elenco degli organismi25; il che ingigantisce e deteriora il fenomeno, provocando uno squilibrio tra domanda ed offerta del servizio-mediazione.
Per lo meno in una prima fase transitoria, forse sarebbe stato preferibile porre un argine all’accesso (evitando che indistintamente enti pubblici o privati presentassero le relative domande ed ottenessero l’accreditamento secondo la regola del silenzio-assenso26). Si sarebbe potuta attendere una sperimentazione dei primi anni per verificare la capacità di assorbimento delle domande di mediazione da parte degli organismi già esistenti; aggiungendo ad essi gli organismi presso i tribunali e presso gli ordini professionali (per le materie di competenza di questi ultimi), e rinviando ad un momento successivo l’eventuale apertura dell’organico oltre il minimo dato. Ciò avrebbe consentito lo sfruttamento delle sinergie già disponibili sul mercato, grazie alle camere di commercio ed agli organismi societari, che alla prova dei fatti risultano tuttora dotati delle migliori esperienze. Sfugge al controllo del Ministero l’attuale situazione in cui continuano a proliferare gli organismi. Auspico dunque che con l’entrata a regime della mediazione obbligatoria (anche per le materie residue del condominio e del risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti27) si riesca a ristabilire l’equilibrio tra domanda ed offerta nel mercato conciliativo; e che si realizzi, tra i plurimi organismi istituiti all’uopo, una autentica selezione naturale.
Riassumendo: “ce ne era veramente bisogno?” Probabilmente si, tenuto conto del nesso di causalità tra precedenti normativi ed attuale disciplina; nesso certamente non spezzato dal fatto che tante e diverse avrebbero potute essere le scelte alternative per corrispondenti risultati.
Di contro: c’era veramente bisogno di un ingolfamento del mercato attraverso l’apertura indiscriminata ad una così articolata congerie di organismi pubblici e privati, chiamati a gestire la nuova mediazione? Probabilmente no: qui si che si spezza il nesso di causalità tra ciò che era necessario (o opportuno) e ciò che invece non lo era. Oltretutto quell’apertura rischia, per un verso, di creare troppe facili illusioni ed attese di sbocchi professionali, attraverso il proliferare di iniziative di formazione. Per un altro verso, rischia di invertire l’attuale rapporto negativo tra una domanda di giustizia sovrabbondante ed una offerta insufficiente di risposta; crea all’opposto una condizione di eccesso dell’offerta rispetto alla carenza, allo stato, della domanda di un’alternativa alla giustizia.
Si poteva fare?
Era possibile pensare ad una riforma in tema di mediazione con scelte di diritto positivo come quelle dettate nel d.lgs. n. 28/2010? Il problema si complica ed invade questioni (che non è mia intenzione esaminare) attinenti alle specifiche soluzioni tecniche privilegiate. Ve ne è però una che non può essere tralasciata neppure in una indagine che opera per principi: quella della conformità a Costituzione della fonte ordinaria. Non voglio anticipare responsi della Consulta circa la costituzionalità della nuova mediazione; si impone però un quadro di sintesi dei problemi attualmente affiorati, in base alle plurime questioni di costituzionalità tuttora pendenti.
Il tema della conformità a Costituzione dei preesistenti modelli conciliativi (o in generale delle ADR) non è nuovo. In precedenza, la Corte se ne è occupata con riferimento all’obbligatorietà del tentativo di conciliazione nelle materie (in primis, quella laburistica) in cui esso era contemplato come condizione di procedibilità-proponibilità della domanda giudiziale. Questo in estrema sintesi l’orientamento piuttosto consolidato. Imporre l’obbligatorietà di un rimedio stragiudiziale di soluzione del contenzioso (in specie, nelle forme del tentativo di conciliazione) non contrasta con i principi costituzionali, a condizione che ciò non impedisca o renda eccessivamente difficoltoso l’accesso alla giustizia. A tal fine, il meccanismo è salvo dai sospetti di illegittimità qualora esso sia imposto come “condizione di procedibilità” della domanda giudiziale, piuttosto che come “condizione di proponibilità”28; nonché qualora esso sia in grado di assicurare alla domanda di mediazione i medesimi effetti (sostanziali e processuali)29 che la domanda di giustizia produce sul diritto controverso. La fase stragiudiziale supera poi il vaglio di costituzionalità qualora si dimostri capace di deflazionare il contenzioso civile, nonché di giungere a conclusione in tempi rapidi.
Vengo alla mediazione civile e commerciale, sulla quale diversi sono i sospetti di illegittimità e varie le norme costituzionali assunte a parametro32. Mi limiterò sul tema a qualche breve riflessione. Prescindo dai sospetti di eccesso di delega, in quanto attinenti ad un profilo tecnico che non incide sull’opportunità-necessità di una disciplina omnibus sulla mediazione33. Seguendo la linea ad oggi segnata dalla Corte costituzionale, escluderei (salvo inversioni di rotta) la fondatezza dei sospetti sull’obbligatorietà della mediazione dell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010, in quanto costruita come “condizione di procedibilità”. Non individuo quindi alcun contrasto con l’art. 24 cost., essendo l’accesso alla via giudiziale non già irreversibilmente pregiudicato, bensì al limite solo ritardato (in misura “ragionevole”).
Le disposizioni del decreto delegato che si occupano dell’obbligatorietà della mediazione rischiano piuttosto di confliggere con i precetti costituzionali sotto il diverso profilo della violazione dell’art. 3 cost., in punto di diseguaglianza (più che di irragionevolezza, quest’ultima essendo insindacabile quando resa oggetto di discrezionalità legislativa); profilo che attiene alla scelta delle materie. Si insinua il dubbio che il legislatore abbia discriminato tra materie assoggettate alla condizione di procedibilità e materie ad essa sottratte senza un criterio equanime (in tutto danno dell’art. 3 cost.).
La critica però si scontra con la discrezionalità legislativa, i cui confini non consentono bene di definire le scelte “ragionevoli” rispetto a quelle che tali non sono: una discrezionalità che, a sua volta, segna i limiti del controllo di costituzionalità. Inoltre, quella critica confligge con l’orientamento – pure condiviso dalla Corte costituzionale – secondo cui invocare la disparità di trattamento tra controversie assoggettate alla condizione di procedibilità e controversie ad essa sottratte, significa muovere dall’errato presupposto di qualificare l’obbligatorietà del tentativo come un ostacolo all’accesso alla giustizia37. In altri termini, alla condizione che la mediazione obbligatoria sia ritenuta compatibile con la Costituzione per come essa è costruita38, il rischio della diseguaglianza (tra materie ad essa assoggettate e materie sottratte) sembra fugato in quanto sia nell’uno che nell’altro caso la fase conciliativa stragiudiziale non provoca un eccessivo aggravio per il sistema giustizia (anzi, ne migliora l’efficienza).
Occorre invece riflettere (nella mediazione obbligatoria e non solo) su quei profili del d.lgs. n. 28/2010 che – creando continuità tra fase conciliativa e processo – impongono un sistema sanzionatorio a carico delle parti le quali scientemente si sono volute sottrarre o comunque non hanno accettato proposte in sede conciliativa, puntando al giudizio. Il riferimento è agli artt. 8 e 13 d.lgs. n. 28/2010: sia quanto al potere del giudice di desumere argomenti di prova dal comportamento delle parti in sede stragiudiziale (rectius, dalla loro mancata partecipazione alla mediazione senza giustificato motivo); sia quanto al potere del giudice – nella medesima situazione – di condannare la parte in sede giudiziale al pagamento di una “sanzione” (nelle forme del versamento allo Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio)39; sia, ancora, quanto al potere-dovere del giudice di porre a carico della parte vincitrice le spese del successivo giudizio (oltre che, anche qui, il pagamento di una somma corrispondente al contributo unificato dovuto), per l’ipotesi in cui abbia rifiutato in sede conciliativa una proposta poi rivelarsi corrispondente alla decisione giudiziale.
Dal momento che – seppure lievi – sono tuttora evidenti le differenze (non solo di forma, ma anche) di sostanza tra accordo e sentenza40, si impone per la via dell’art. 24 cost. il “diritto alla sentenza”, anche di fronte ad un appetibile meccanismo conciliativo. Sicché, rischierebbe di scontrarsi con la Costituzione ogni disposizione di legge ordinaria che dovesse forzatamente coartare la scelta delle parti, nel prediligere l’esito conciliativo in luogo di quello giudiziale.
In altri termini, il diritto a vedere soddisfatte le proprie pretese in sede giudiziale trova tuttora un valido sostegno nell’art. 24 cost.; diritto che non recede neppure di fronte al migliore degli strumenti conciliativi, né di fronte alla sua capacità di decongestionare il contenzioso civile. Creare dunque incentivi alla mediazione (artt. 13 e 8 d.lgs. cit.), sotto forma di sanzione per chi scelga di non rinunciare alla sentenza, è regola di legge che rischia di scontrarsi con l’art. 24 cost.; regola che, quand’anche non incostituzionale, è in ogni caso criticabile per la sua inopportunità. Resta tuttavia aperto il problema di come creare in tempi ragionevoli una cultura della mediazione ed incentivare il ricorso ad essa, senza ricorrere a questo tipo di “incentivi forzosi”.
Si può parlare invece dell’incostituzionalità delle disposizioni di legge ordinaria che affrancano il ruolo del mediatore dalle professionalità tecnico giuridiche (art. 16 d.lgs. cit.)? e di quelle che collocano l’avvocato in ombra nel procedimento conciliativo, non imponendo la sua assistenza come obbligatoria? Scelte di diritto positivo di cui non mi voglio occupare specificamente e che invece nell’opinione pubblica rivestono una posizione centrale, tanto che su di esse è già stata a più riprese investita la Corte costituzionale.
Anche sul punto, poche brevi osservazioni. La mediazione non è un processo, il mediatore non decide una causa, ma gestisce un conflitto; l’oggetto della mediazione non sono diritti, ma interessi. Dietro questi slogans che fanno notizia oggi, ma che in tanti altri paesi costituiscono una realtà consapevole e consolidata, si nascondono i profondi distinguo tra mediazione e giudizio, tra soluzione autonoma e soluzione eteronoma della lite.
La migliore comprensione di queste differenze è la risposta ai quesiti di cui sopra. Il mediatore può ben essere un soggetto non dotato di formazione giuridica, perché non è suo il compito di decidere una controversia. Al contempo, la figura dell’avvocato non è necessaria in sede di mediazione, perché in essa si gestiscono conflitti e non si decidono cause; e perché il suo oggetto sono gli interessi e non i diritti. Piuttosto, qualora l’assistenza dell’avvocato diventasse obbligatoria (così almeno secondo alcuni progetti di riforma), egli sarebbe chiamato ad assumere in mediazione un atteggiamento molto diverso da quello che assume nel processo: difensore delle parti non per la tutela di diritti, ma per la protezione degli interessi.
Detto questo, siamo ancora lontani dal ritenere che il sistema attuale sia in equilibrio. Il nostro paese (giuridico e sociale) è ancora troppo distante dalla cultura che ha visto altrove affermare la mediazione come un meccanismo efficiente. E’ forte il sospetto che – al di là degli slogans – la mediazione stia ricevendo da noi più critiche che consensi perché la nostra società non è ancora matura per accogliere il sistema puro “all’americana”.
Il passo è lungo, per arrivare da qui all’incostituzionalità delle norme che tale sistema tentano di introdurre; certo è che, pure superando i sospetti di incostituzionalità, la strada verso l’equilibrio sarebbe ancora molto tortuosa. Non basta una pronuncia della Consulta (pure nel senso dell’infondatezza di ogni sospetto) per convincere i cittadini che il sistema funziona e che la società è pronta per una rivoluzione culturale. Piuttosto, è necessario un movimento che deve partire da basso (ma di questo mi occuperò tra breve41). Quanto al “si poteva fare?”, la Costituzione dunque non lo esclude a priori, anche se è difficile trovare il giusto equilibrio tra descrizione astratta del fenomeno e suo fare concreto; quest’ultimo – con tutti i suoi limiti e con tutte le sue incertezze – si espone inevitabilmente al rischio dell’incostituzionalità.
A che serve?
Per dare un senso ad ogni sforzo di superare le ostilità (spesso mosse da banali pregiudizi, altre volte fondate su obiettive criticità) verso la nuova mediazione civile e commerciale, occorre individuarne la vera funzionalità. È diffusa l’idea che la mediazione – soprattutto secondo le modalità con cui si impone oggi – abbia come primo obiettivo quello di deflazionare il contenzioso civile, di fungere da strumento per evitare o al più rallentare l’accesso alla giustizia. Questa prospettiva, in realtà, non può essere prioritaria rispetto ad altre.
È indubbio che la mediazione – non diversamente dalle altre ADR – persegua lo scopo (comune a tutte le più recenti riforme del processo civile) di decongestionare il contenzioso. È però errato pensare che la sua funzione vada intesa solo in negativo, quale espressione dell’esigenza di fungere da soluzione ai mali della giustizia; e non anche in una prospettiva positiva, come espressione del principio di prossimità. Diverse le ragioni che conducono a siffatta conclusione.
Innanzi tutto, qualificare la mediazione come un rimedio ai mali dell’irragionevole durata del processo rischia di essere conclusione parziale, se non del tutto errata: affinché il procedimento conciliativo funzioni è – al contrario – necessario che la giustizia funzioni altrettanto bene42. Una buona mediazione non può non fondarsi sul buon funzionamento dello strumento giurisdizionale, mentre sarebbe paradossale il contrario. Se l’accordo conciliativo viene avvertito dalle parti come il “male minore” rispetto ai risultati a cui potrebbe condurre il processo, è evidente che le parti stesse saranno disincentivate dal cercare un vero accordo, ben sapendo comunque di poter contare sulla durata del processo giurisdizionale e quindi sull’incapacità di esso nel “fare giustizia”. Né la mediazione può risolversi in (o essere percepita come) una copia del processo, peraltro di “seconda categoria”: perché si sarebbe comunque tentati di scegliere l’originale. Leggere nello strumento conciliativo un rimedio ancillare al processo e ad esso asservito (per favorirne l’efficienza) è dunque secondario. La mediazione va guardata in sé e non per quello che può dare al e nel processo. E’ in questa prospettiva che occorre allora individuarne l’utilità (“a che serve?”). Ciò non significa rifiutarsi di rapportarla al processo, con cui è chiamata a confrontarsi, se non altro per i risultati a cui essa è in grado di condurre (da comparare, appunto, a quelli che realizza il processo, alla sentenza).
Si è soliti dire che la sentenza si colloca all’interno del sistema giurisdizionale (e ne è espressione) quale provvedimento a contenuto decisorio e massimamente garantista, in quanto proiettato sulla formazione della cosa giudicata; mentre la mediazione è fenomeno di diritto sostanziale, da inquadrare entro le categorie dei contratti, in grado di regolare i rapporti tra le parti prima ed a prescindere dalle patologie della giurisdizione. Senza voler negare questo dato certo, occorre però anche guardare alla funzionalità dell’istituto in una diversa prospettiva: quella “sociale”. Nel cercare possibili soluzioni al male della giustizia civile, ho altrove posto in risalto come la prospettiva del “federalismo” – attraverso l’affermazione e lo sviluppo delle c.d. buone pratiche – si ponga quale utile strumento per la convivenza civile: non solo nella sua dinamica “verticale”, quale espressione di un decentramento istituzionale, proveniente “dall’alto”; ma anche nella prospettiva “orizzontale”, in quanto rappresentazione di un decentramento proveniente “dal basso”. Prospettiva quest’ultima di cui si fa espressione l’art. 118 cost., nella sua formulazione attuale e più moderna costruzione ideologica.
Il riconoscimento esplicito del principio di sussidiarietà orizzontale apre la via al cd. terzo settore, cioè ad un privato-sociale da collocare a metà strada tra il settore pubblico (all’insegna del formalismo e dell’inefficienza) e quello privato (all’insegna del profitto e dell’egoismo). Secondo il principio di sussidiarietà verticale, i soggetti di rango superiore non debbono interferire nell’autonomia di quelli di rango inferiore, se questi ultimi sono in grado di perseguire i propri fini; anzi, devono sostenerli, ove necessario. La sussidiarietà orizzontale impegna alla valorizzazione della libertà, dell’autonomia, della dignità e della responsabilità della persona, da rivalutare attraverso organizzazioni e istituzioni che possano operare in termini cooperativi e competitivi. In questo senso, la sussidiarietà – più che rappresentare una terza via e una sorta di mediazione o di compromesso tra il pubblico e il privato, con le loro rigidità – propone una prospettiva fondata sulla centralità della persona, per superare l’egoismo tipico della società moderna; per valorizzare l’aggregazione dal basso; per incentivare il dialogo con la realtà locale e l’attenzione al sociale; per favorire l’aggregazione, l’impegno individuale, la cooperazione. La sussidiarietà supera il confronto fra stato e mercato, coordinando fra loro libera iniziativa economica e libera iniziativa sociale; e deve definirsi non tanto in una prospettiva di contrapposizione, negativa (né Stato, né mercato), quanto in una positiva, che valorizzi e sviluppi le potenzialità del volontariato, della società civile, del dialogo (oltre allo Stato, oltre al mercato).
Insomma, occorre superare una logica dello sviluppo che imponeva di ricondurre tutto allo Stato o al mercato o, al più, ad un mix fra di loro. Il bipolarismo Stato-mercato è superato dall’affermarsi del tripolarismo tra pubblico, privato e civile-sociale, di cui offre un esempio la riforma dell’articolo 118 ultimo comma della Costituzione. Anche i singoli cittadini e i corpi intermedi della società hanno titolo per operare direttamente a favore dell’interesse generale, e devono essere posti nelle condizioni concrete per poterlo fare. Ai due pilastri rappresentati rispettivamente dal principio di eguaglianza, garantito e legittimato dallo Stato, e dal principio di libertà, reso concretamente possibile dal mercato, si avverte la necessità di affiancare un terzo pilastro: il principio di reciprocità, che esprime il fondamento delle organizzazioni della società civile e del sociale, cioè del c.d. terzo settore.
Provo dunque a trasporre questo schema – che oggi governa la nostra società e del quale non si può fare a meno – nel contesto della mediazione quale strumento civilistico di tutela degli interessi, in contrapposizione alla funzione pubblicista del giudizio (di riconoscimento dei diritti). Il processo rappresenta il “pubblico”, strumento ingessato nei formalisimi e nelle inefficienze delle istituzioni, seppure con le sue migliori prospettive teoriche (il giudicato); il contratto (nella sua versione primigenia) individua il “privato”, la libertà di iniziativa economica in cui alla prospettiva migliore dell’efficienza e del profitto si contrappone quella deteriore (non meno patologica del formalismo pubblicistico) dell’egoismo individualista.
Tra i due si colloca la mediazione (nelle forme di quella “amministrata”, come offerta dal d.lgs. n. 28/2010) che condivide con il primo alcune rigidità, ma al contempo assicura maggiori garanzie; e condivide con il secondo la libertà ed autonomia nell’iniziativa sociale, ma al contempo la circoscrive attraverso quelle garanzie. Anche la mediazione quindi – come il federalismo e la sussidiarietà orizzontale – è frutto di un mix tra Stato e mercato, capace di recuperare l’efficienza di quest’ultimo nelle rigidità garantiste del primo.
E’ ovvio, si tratta qui di voler offrire la prospettiva migliore, potendosi al contrario in quella peggiore figurare una mediazione che – sempre collocata a metà tra Stato e mercato – recuperi dell’uno e dell’altro le peculiarità deteriori (l’inefficienza del primo e l’arbitrarietà del secondo). L’idea (piuttosto ottimistica) è però quella di un sistema funzionante, in cui gli strumenti che oggi l’ordinamento pone a disposizioni siano utilizzati quali risorse migliori. In altre parole – e per scendere nel dato concreto – la mediazione è un istituto che oggi si impone e che l’osservatore lungimirante deve imparare a sfruttare nelle sue più preziose funzionalità. Una riforma che funzioni non è quella che figura proiezioni perfette e regole perfette che colgano riforme istituzionali “dall’alto”, senza farsi espressione delle esigenze provenienti “dal basso”. La prospettiva migliore è quella di “governare la quotidianità” , muovendo innanzi tutto dalle “buone pratiche”.
Si tratta di promuovere la riattivazione di un importante dialogo tra tutte le componenti del circuito giudiziario, sul terreno della quotidianità, appunto: non solo tra quelle classiche e tradizionali (giudice, avvocato, operatore amministrativo); ma anche tra esse e tutte le componenti da cui proviene la domanda di giustizia, gli utenti ed i loro organismi rappresentativi di vario genere, nonché gli enti rappresentativi della realtà locale. In questo contesto, il dialogo si apre agli organismi di mediazione, ai mediatore (perché no? agli enti di formazione ed ai formatori, di cui il d.lgs. n. 28/2010 pure si occupa43), anch’essi operatori e rappresentanti delle realtà locali a cui va riconosciuto il giusto ruolo.
Si impone allora l’esigenza di un cambiamento di vedute anche da parte della classe forense che si avvicina alla mediazione. A prescindere dal ruolo che l’avvocato è destinato a ricoprire nella mediazione (a prescindere dunque dalla sua partecipazione necessaria o facoltativa, a fianco di uno dei litiganti; o, per altro verso, dal suo eventuale e peraltro importante ruolo di mediatore) è importante che egli comprenda il contesto nel quale è chiamato ad operare, un contesto direi del “sociale” in cui ci si muove in un ambito privatistico, ma per il tramite di una struttura (più o meno complessa) che è quella conciliativa. L’avvocato, in altri termini, non sarà chiamato a difendere le parti in un giudizio, né solo a riprodurre in un contratto la loro volontà privata. Sarà piuttosto chiamato a contribuire nella gestione di un servizio che non conduce alla sentenza (con la sua autorevolezza), ma neppure si ferma ad un contratto, quale che sia.
Per concludere. In un tempo in cui vanno valorizzate le prassi virtuose, in cui le riforme migliori non sono quelle che muovono dall’alto, ma quelle che coinvolgono tutti ad ogni livello e dimensione del sociale, non vedo perché non guardare al nuovo modello conciliativo in una prospettiva ottimistica. “Serve?”: i delatori della mediazione non esitano a dire di no. Io credo invece di si, quale espressione del “sociale” a metà strada tra Stato ed autonomia privata.
1 commento
Gentili Signori,
vorrei sapere se avete una guida all’attività di mediazione. Se una persona si affaccia a questa professione quante probabilità ha di successo ? Come si imposta tale attività ?
Distinti saluti
Gian Piero Bonfanti