Il fenomeno conciliativo nel nostro ordinamento non è senza storia, anche se in confronto ad altre esperienze nazionali la prima considerazione che viene fatta è quella dell’arretratezza del nostro modello rispetto ad altri; ma non è un fenomeno, non è un meccanismo senza storia, come dimostra il fatto che la figura del giudice di pace era già presente nella legislazione preunitaria, in particolare nella legislazione del Regno di Napoli, per la verità sul calco di modelli stranieri, in particolare del modello francese. Il modello francese ha sviluppato la funzione arbitrale e la funzione conciliativa fino ad arrivare alla Rivoluzione Francese, per poi subire quella che è nota come la “svolta autoritaria”, che ha invece limitato il ruolo e la funzione degli arbitri e dei conciliatori, fossero essi coincidenti con le figure dei giudici togati, o meno. Ma nel frattempo il modello era circolato, ed era passato nella legislazione napoletana, e dalla legislazione napoletana al codice di procedura del 1865. E da quel codice di procedura in alcuni interventi legislativi del Regno d’Italia.
Già dall’analisi della legislazione preunitaria si evincono gli elementi essenziali, che sono rimasti poi tali, della funzione conciliativa, e cioè: la distinzione tra conciliazione e transazione: nella conciliazione interviene necessariamente un terzo. La differenza tra conciliazione e giurisdizione, nel senso che se entrambe presuppongono l’esistenza di una lite e mirano a definirla, tuttavia nella giurisdizione non si può fare a meno di risolvere la lite in ossequio alla stretta osservanza dello strictum ius. E soprattutto, nella conciliazione la risoluzione della controversia è il frutto di un accordo delle parti e non del decisum di un soggetto terzo.
Ancora in questa legislazione preunitaria e nel codice del 1865 si ritrova nettissima la distinzione tra conciliazione e mediazione: la conciliazione può essere agevolata dall’intervento di un terzo, ma senz’altro nella mediazione non si ha come presupposto l’esistenza di una lite. Ed è per questo che – una nota storica comunque interessante – la legislazione del Regno di Napoli che prevedeva il giudice conciliatore, il giudice di pace, in funzione di conciliazione era stata travisata, nell’utilizzazione che ne facevano le parti, che finivano per adire il giudice di pace non già per ottenerne una conciliazione di una lite, ma per usarlo come una specie di consulente terzo, risparmiando così il costo di avvocati, notai, ed ottenendo quello che formalmente era un provvedimento emanato da un funzionario pubblico, quindi senza bisogno che fosse registrato, evitando anche di pagare tasse e risparmiando sotto tutti i profili, tanto da rendere necessari provvedimenti atti ad evitare questa distorsione nell’utilizzo del giudice di pace. Giudice di pace che finiva, appunto, non per risolvere controversie, perchè non c’era nulla di controverso, non c’erano liti, mentre le parti andavano a farsi conciliare qualcosa che in realtà non era una lite.
È chiaro, dall’analisi della legislazione preunitaria e del codice del 1865, che la funzione conciliativa era una funzione cumulabile con quella di risoluzione giurisdizionale delle controversie, ma di caratterizzante vi è che questa funzione conciliativa era affidata per allora al giudice togato. Sulla base di queste esperienze, possiamo fare una rapida carrellata dei momenti in cui l’ordinamento attuale riconosce delle funzioni conciliative ai giudici togati, e sono per lo più note, sono per lo più settoriali: la funzione conciliativa del presidente del Tribunale in materia di separazione personale; le conciliazioni in tema di contratti agrari, in tema di rapporti di lavoro, in tema di equo canone. Ci sono anche ipotesi peculiari e speciali come la conciliazione davanti al comandante di porto in tema di sinistri marittimi, prevista dal 595 terzo comma del codice della navigazione. E poi naturalmente il tentativo di conciliazione facoltativa ex 185 c.p.c. vecchio rito e invece divenuto obbligatorio ex 183 nuovo rito.
La constatazione ovvia che è sotto gli occhi di tutti, è quello del sostanziale insuccesso delle tecniche conciliative elencate finora. Quanto all’ultima cui ho accennato, ex 183 c.p.c., immagino che gli avvocati tra di voi abbiano sperimentato l’utilità dei tempi impressi al nuovo rito, una delle conseguenze dei quali è che, come voi sapete, le parti arrivano all’udienza ex 183 eventualmente dopo essersi scambiate comparse ex 180 e quindi dopo avere, in virtù della disciplina delle decadenze e delle preclusioni, largamente giocato le carte, e spesso anche dopo aver anticipato in larga parte i mezzi istruttori di cui intenderanno avvalersi. Come si è notato in dottrina, capita, ben più che in passato che se una causa può essere transatta, lo sia subito in sede di udienza ex 183 proprio perchè sono già stati usati tutti i mezzi di difesa e per lo più anche quelli istruttori anche se il termine è precedente a quello ex 184. Ma tutto questo se la causa può essere transatta, nel senso: se le parti hanno “voglia” di transigerla. Se invece non ci sono prospettive di alcuna transazione, il 183 va deserto nel senso che capita anche che le parti non si presentino. Quindi il meccanismo è congegnato bene, ma non è sufficiente a introdurre un preponderante momento conciliativo nell’ambito del processo ordinario.
E infine, per completare la carrellata, il giudice di pace. Il giudice di pace, oltre alla competenza ex art. 183, così come qualsiasi altro giudice civile, ha ereditato quella funzione conciliativa che già era stata del giudice conciliatore: l’art. 322 recita che “l’istanza per la conciliazione in sede non contenziosa è proposta anche verbalmente al giudice di pace competente per territorio”; dispone inoltre che il processo verbale di conciliazione in sede non contenziosa costituisce titolo esecutivo se la controversia rientra nella competenza del giudice, altrimenti ha valore di scrittura privata.
Questo meccanismo strutturalmente sarebbe ineccepibile, perchè non sono previsti dei limiti di competenza per valore, per esempio. Quindi il giudice di pace potrebbe conciliare delle liti, delle controversie di valore anche ulteriore rispetto a quello delle competenza del valore del giudice di cui parliamo. Ci sono ovviamente dei limiti di competenza funzionale per materia, ma quello che rimane una volta fatti salvi questi limiti di competenza per materia, le materie che residuerebbero alla funzione conciliative del giudice di pace sono comunque molte, e sono importanti. Poi il meccanismo sarebbe opportuno, perchè, per esempio, sono possibili attività istruttorie in senso lato, non ci sono preclusioni in questo senso. E poi, finalmente, il processo verbale ha valore di titolo esecutivo, se si rientra nella competenza.
Peraltro, è pure questo sotto gli occhi di tutti gli operatori, il fallimento di questo tipo di meccanismo conciliativo, che quando viene utilizzato lo è per lo più dopo aver subito una sorta di attrazione in un contesto di adversary system. Per cui, anzichè andare insieme dal giudice di pace e farsi conciliare la vertenza capita che sia solo una delle due parti che fa istanza al giudice di pace per ottenerne una funzione di conciliazione, chiedendo alla Cancelleria di notificare un biglietto di Cancelleria alla controparte. Che non è una citazione a comparire ad udienza, perchè non è un momento giurisdizionale quello di cui stiamo parlando, è un biglietto in cui si rende noto che un certo giorno ci sarà un tentativo di conciliazione davanti al giudice di pace. Ma se io ricevo un biglietto di Cancelleria, forse non so distinguere che non è una citazione Se ricevo un biglietto di Cancelleria in cui si dice “per piacere, viene il giorno tale che proviamo a conciliare davanti al giudice”, novantanove su cento, e le prime statistiche dimostrano che è così che la cosa viene percepita, viene intesa come qualcosa di simile ad una citazione. Allora il soggetto notificato chiede subito all’avvocato “che cosa succede se non mi presento?”. E non c’è nessuna conseguenza per la mancata adesione alle istanze di conciliazione, non essendo possibile alcun procedimento in contumacia, perchè non è un procedimento giurisdizionale. E allora la cosa cade nel nulla.
Larga parte di voi ha probabilmente vissuto il dibattito, dagli anni settanta in poi sul giudice onorario. Discussioni che hanno portato, da ultimo, al conferimento al giudice di pace di funzioni conciliative, dopo un iter travagliatissimo che verteva sulle modalità di nomina del giudice onorario, poi giudice conciliatore, poi giudice di pace, e cioè se dovesse essere eletto oppure prescelto dall’alto, che limiti di competenza dovesse avere, quale dovesse essere la sua formazione, se necessariamente dovessero provenire i giudici conciliatori o i giudici di pace da facoltà di giurisprudenza o meno, se la laurea in giurisprudenza dovesse essere un titolo preferenziale per la selezione, e così via. Tutti questi dibattiti, è sotto gli occhi di tutti, non hanno portato benefici praticamente rilevabili, nonostante le attribuzioni di cui abbiamo detto adesso.
Tra le ragioni, anche qui sintetizzo quello che è stato scritto e detto in più occasioni da ben altri e più autorevoli studiosi, sono da ricercarsi nella cultura, nella mentalità che caratterizza il nostro ordinamento e che tende a vedere in primo luogo nel giudice togato un soggetto che decide la controversia: potrà anche facilitare un accordo spontaneo tra le parti, ma essenzialmente il giudice è colui che la decide, la controversia.
C’è una prima ragione di ostacolo psicologico a riconoscere a un soggetto che, per funzione, decide una controversia, anche funzioni di conciliazione: se la conciliazione dovesse andare male, è poi lo stesso soggetto che dovrà deciderla, e allora potrebbe farsi influenzare dall’andamento delle trattative. In questo senso, potrebbe invece essere preso a modello il meccanismo della mèdiation francese, che prevede la possibilità di sospendere la causa, dando à¡dito, ad un tentativo di conciliazione, oppure prevede la conciliazione preventiva rispetto all’instaurarsi della causa. Ma la cosa importante è che la conciliazione, nella mèdiation francese, avviene davanti ad un soggetto diverso dal giudice, in modo che se la conciliazione dovesse andar male non sarà lo stesso soggetto ad essersi fatto una qualche idea dell’atteggiamento delle parti. E soprattutto, le trattative conciliative, eventualmente non sfociate in nulla, rimangono segrete. Questo invece non c’è nella funzione conciliativa del giudice di pace.
Una prima conclusione è che, come si ritiene da parte della maggior parte degli osservatori e dei commentatori, lo spazio residuato allo sviluppo di una funzione conciliativa in capo al giudice togato sia esaurito, che più di questo il giudice togato non possa fare. E da qui lo spostamento dell’attenzione sull’ADR.
Non è mio compito illustrare l’utilità delle ADR rispetto al fallimento della funzione conciliativa del giudice togato, salvo accennare al fatto che, dal punto di vista di tecnica processuale, le ADR si prestano ad un coordinamento ottimale con i momenti dell’attività giurisdizionale, se concepiamo le ADR in tre modi alternativi :
1. come filtro necessario precedente l’inizio dell’attività giurisdizionale, tale per cui in mancanza di un tentativo di conciliazione la causa sia inammissibile;
2. oppure, come prima fase necessaria del momento giurisdizionale, tale per cui in mancanza di un tentativo di conciliazione la causa sia improcedibile;
3. oppure come momento da inserire all’interno del momento giurisdizionale, quindi come tentativo di conciliazione.
Neppure affronto, perchè non è compito mio intrattenermi sull’argomento, i requisiti che dovrebbero avere le ADR, perchè di questo si è già detto. E cioè il tema delle garanzie processuali, che le ADR dovrebbero comunque affrontare (la necessità che il procedimento sia comunque conoscibile previamente in tutti i suoi aspetti da parte di chi adisce questi meccanismi di risoluzione delle controversie, il tema dei costi, che devono essere davvero contenuti e dei tempi).
In assenza del professor Tenreiro, due parole sui motivi di impulso che sono provenuti dalla Comunità Europea, in tema essenzialmente di accesso alla giustizia da parte dei consumatori.
Voi sapete che i consumatori sono diventati una politica ufficiale della Comunità Europea solo dal ’92, con l’articolo 129A del trattato di Maastricht. Prima, l’interesse del consumatore era preso in considerazione, ma nell’ambito di altre politiche comunitarie, essenzialmente quella dell’armonizzazione delle condizioni per la realizzazione del “mercato interno”, prima, e del “mercato unico”, da Maastricht in poi. Ma dal 1992 è una politica ufficiale della Comunità anche se, voi sapete, non ci sono molti strumenti di diritto comunitario derivato precipuamente e unicamente finalizzati alla tutela dei consumatori: si continua a pensare alla tutela dei consumatori nell’ottica e nell’ambito di altre politiche comunitarie. Ciò nonostante, l’azione della Comunità Europea a favore dei consumatori e, per quanto oggi ci riguarda, in tema di facilitato accesso alla giustizia, è un tema che la Comunità ha sentito fin dal ’75, nel suo primo programma d’azione a favore dei consumatori. Poi nell’81 e nell’85 altri programmi d’azione fino ad arrivare a commissionare studi sulle ADR in tema di rapporti consumatori-imprese nel 1993, fino al libro Verde del 1993, fino al programma d’azione del 1996.
Perchè sta a cuore l’accesso alla giustizia per il consumatore? Anche quando la Comunità Europea non ha di mira l’interesse del consumatore come persona, come cittadino dell’Unione, anche quando non è la persona a meritare l’interesse della Comunità , è comunque il consumatore attivo a meritare questo interesse, perchè soltanto un consumatore che in tutto il Mercato Europeo possa usufruire di garanzie uniformi potrà essere quel soggetto che dà l’impulso all’unificazione del mercato. Mercato Unico significa come voi sapete, un mercato che dal punto di vista del suo funzionamento economico, prima che giuridico, funzioni come un mercato nazionale. Quindi, non soltanto assenza di barriere, ma presenza di tutte le condizioni che rendono identico un mercato transnazionale ad un mercato nazionale. E di qui tutte le direttive, che voi conoscete, che uniformano il diritto contrattuale: clausole abusive, possibilità di recesso in caso di contratti stipulati fuori dai locali commerciali, direttive sulle vendite a distanza, proposta di direttiva sulle garanzie post vendita, in caso di vendita di beni di consumo, proposta di direttiva sull’inibitoria comunitaria.
Ma in questo quadro si inserisce perfettamente il tema dell’accesso alla giustizia, se i consumatori europei non hanno ovunque in Europa un accesso facile, agevole, poco costoso, veloce, alla giustizia, ovviamente per quanto riguarda i rapporti con le imprese, che sono il loro interlocutore contrattuale, questo è un momento di difetto del meccanismo del Mercato Unico. Quindi il tema dell’accesso alla giustizia è centrale nell’ambito della regolamentazione comunitaria.
Leggendo tutti i documenti comunitari in tema d’accesso alla giustizia da parte dei consumatori ci si rende conto della modernità dell’approccio al problema giustizia, che è visto a Bruxelles come un problema da risolvere concependo la giustizia come da amministrasi a livello diffuso. Non si concepisce la necessità di accentrare l’amministrazione della giustizia in mano ai giudici togati. Si concepisce la funzione di prevenzione del contenzioso. Di qui l’idea di concepire l’ADR in funzione preventiva.
Poichè quello che sto dicendo è introduttivo ad alcuni interventi legislativi italiani recenti, uno dei quali non riguarda direttamente i consumatori ma il mondo delle imprese, è opportuno accennare anche ad un altro settore di intervento comunitario, che è quello che ha di mira il mondo delle imprese, il mondo dei rapporti tra le imprese, nell’ambito del quale l’intervento legislativo comunitario è preminente, anche nel senso di favorire e promuovere un ambiente commerciale caratterizzato da fairness, caratterizzato da lealtà nei rapporti commerciali. Quale esempio di questo movimento si può citare la raccomandazione sui tempi di pagamento che è diventata poi una proposta di direttiva.
Sulla base di queste indicazioni si possono introdurre queste due leggi importanti, recenti dell’anno scorso, sulle quali conviene spendere alcune parole : la legge 281/98 e la legge 192/98. La 281/98 è la prima legge organica in tema di protezione dei consumatori. A differenza di altri Paesi comunitari noi non abbiamo avuto finora una legge quadro, una legge organica che si occupasse della protezione dei consumatori. Una legge molto articolata e molto lunga era stata progettata, poi non si è riusciti ad ottenerne l’approvazione in blocco e la 281/98 è finita con l’essere l’unica parte di questo progetto ad essere approvata. Gli articoli che costituiscono oggi la 281 sono quelli che costituivano gli articoli iniziali, gli articoli generali del progetto principale. Comunque va segnalata la legge come estremamente innovativa nel nostro panorama legislativo. Per quanto qui oggi interessa, basta accennare che la 281/98 prevede la legittimazione ad agire a favore di associazioni rappresentative di categoria dei consumatori, prevedendo poi un meccanismo preliminare di riconoscimento e legittimazione di solo alcune di queste associazioni, che presentino determinati requisiti. Una volta riconosciuti, questi enti potranno attivare, ai sensi dell’articolo 3 comma 2 della legge, prima del ricorso al giudice, la procedura di conciliazione davanti alla Camera di commercio, industria, artigianato, ai sensi della legge 580/93 che è stata citata questa mattina e che è la legge di riordino della Camera di Commercio, la quale a sua volta prevede che le Camere di Commercio possono costituire delle commissioni conciliative oltre che a delle camere arbitrali.
Se si raggiunge una conciliazione ad opera di questi enti di categoria, prosegue il comma 3, il processo verbale di conciliazione, sottoscritto dalle parti, è depositato per l’omologazione nella Cancelleria della Pretura del luogo dove si è svolto il procedimento di conciliazione. Quindi c’è una fase intermedia tra il raggiungimento dell’accordo ed il posterius, che è preceduto dal comma 4 una volta che c’è l’omologazione, il verbale diventa titolo esecutivo, finalmente. Inoltre prevede l’articolo 4 che il Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti che nuovamente è previsto dalla legge abbia il compito di favorire iniziative volte a promuovere il potenziamento dell’accesso dei consumatori e degli utenti ai mezzi di giustizia previsti per la soluzione della controversie. Affrontando così il problema della cultura del consumatore: se il consumatore non sa che ci sono questi modi alternativi a sua disposizione, oltre a non saperlo l’avvocato, che è l’altra faccia del problema, le previsioni legislative resteranno lettera morta.
E poi vi accennavo all’altro intervento legislativo importante, che non riguarda i consumatori, ma pure questo è stato promosso con l’impulso del diritto comunitario: la legge sulla subfornitura, che muove da un assunto, per certi versi non del tutto dimostrato, come hanno messo in luce i primi commentatori, tra cui il prof. Pardolesi: si tratta dell’assunto per cui bisognerebbe proteggere il subfornitore, perchè è senz’altro parte debole. Così come non è ancora stato dimostrato che, da un punto di vista di analisi economica del diritto, l’intervento del legislatore a favore di una asserita, presunta, parte debole come l’impresa di subfornitura sia efficiente.
Ma, dato per scontato che la ratio della legge è quella di protezione di una parte ritenuta debole, e cioè il subfornitore nei riguardi del committente, questa legge predispone una serie di strumenti a tutela della parte debole subfornitore: in tema di tempi di pagamento, in tema di responsabilità del subfornitore, in tema di garanzie per il subfornitore quanto ai termini per la denuncia dei vizi dell’opera da parte del committente. Poi contiene una disposizione innovativa, per certi versi rivoluzionaria, almeno da un punto di vista terminologico, nel panorama normativo italiano, su cui non c’è tempo di intrattenersi, o andremmo fuori tema, ed è l’art. 9 in tema di abuso di dipendenza economica. Infine la legge prevede due rimedi, due strumenti di tutela del subfornitore-parte debole: uno, ed è nuovamente innovativo, e gli avvocati tra di voi potranno apprezzarne la portata, è previsto all’art. 3, punto 4 che, in ogni caso, la mancata corresponsione del prezzo entro i termini pattuiti, da parte del committente al subfornitore, costituirà titolo per l’ottenimento di ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva. Quindi la legge prevede che il subfornitore in caso di mancato pagamento della commessa possa ottenere un 633 provvisoriamente esecutivo.
E infine, all’articolo 10, ecco perchè ci interessa, si prevede un tentativo obbligatorio di conciliazione ed un meccanismo facoltativo di arbitrato amministrato. L’articolo 10 infatti stabilisce che, entro trenta giorni dalla scadenza del termini per la denuncia dei vizi dell’opera, termine che è diverso a seconda della sussunzione del contratto atipico di subfornitura in uno dei tipi noti, cioè se è appalto, il termine dell’appalto, se somministrazione, il termine della somministrazione etc., comunque sia entro trenta giorni dalla scadenza di quel termine, le controversie relative al contratto di subfornitura sono sottoposte al tentativo obbligatorio di conciliazione presso la Camera di commercio. E il secondo comma prevede che, se non si raggiunge la conciliazione entro trenta giorni, questo è un termine piuttosto serrato, su richiesta di entrambi i contraenti la controversia sarà rimessa alla commissione arbitrale istituita pressa la Camera di commercio.
I problemi interpretativi e applicativi di questa disposizione sono tanti, e non di poco momento, tanto da inficiare la portata pratica di queste disposizioni. Non si ha uniformità di opinioni su come si riescano a far combaciare alcune di queste previsioni. Innanzitutto, il tentativo obbligatorio di conciliazione va esperito prima o dopo il ricorso per decreto ingiuntivo previsto dall’art. 3? E poi se fallisce il tentativo di conciliazione è possibile ottenere un lodo arbitrale nel termine serrato previsto dall’articolo? E cosa succede se tra il tentativo di conciliazione e l’inizio della procedura arbitrale il subfornitore ha adito all’organo giudiziario per ottenere un decreto provvisoriamente esecutivo? A tutte queste domande la legge non risponde, le tesi sono state tante. Non c’è il tempo per argomentarle tutte, ma la più ragionevole sembra quella che indica la soluzione della sospensione del procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo in pendenza di arbitrato.
È importante accennare brevissimamente alle linee direttive dell’Unioncamere in tema di procedure conciliative. La Camera arbitrale del Piemonte, che è stata una delle prime ad attivarsi in questo senso, e che raduna tutte le Camere di commercio del Piemonte, la Curia Mercatorum di Treviso e la Camera arbitrale nazionale ed internazionale di Milano hanno predisposto uno schema da un paio d’anni per realizzare una rete di sportelli conciliativi in tutte le Camere di commercio aderenti a questo schema. Anche in questo contesto, le esperienze straniere sono di grande ausilio: la Camera arbitrale del Piemonte, tra le due alternative, quella della mediazione e conciliazione valutativa da un lato, e quella della conciliazione e mediazione facilitativa dall’altro, ha preferito quest’ultima. Qui si formano inoltre i conciliatori in modo da insegnare loro a smorzare gli accenti emozionali delle parti, e consigliarli sulle conseguenze del mancato raggiungimento di un accordo.
L’Unioncamere non si è fermata qua, ha anche elaborato un cosiddetto “arbitrato accelerato” in cui la discovery, potremmo quasi dire, i mezzi istruttori devono essere forniti contestualmente della procedura arbitrale, e il procedimento è poi orale. Infine, c’è un regolamento semplificato di arbitrato e di mediazione che Confindustria ed Unioncamere hanno predisposto e che dovrebbe consentire alle controversie, insorte tra membri dell’una o dell’altra associazione, di addivenire ad una sede di composizione facilitata delle controversie.