A quasi vent’anni dalla fine della guerra fredda, con l’affermazione della cosiddetta “Società Mondiale”(così come definita da E.O. Czempiel, uno dei più illustri esperti di relazioni internazionali), sono emersi nuovi modelli di conflitto che hanno posto l’intera comunità internazionale di fronte alla necessità di elaborare nuovi modelli di gestione del mantenimento della sicurezza nel nuovo ordine globale.
Le ricerche in materia di risoluzione dei conflitti si sono focalizzate prevalentemente sul conflitto visto come guerra tra stati-nazione e la maggior parte delle teorie è stata elaborata come risposta a questo modello. Negli ultimi anni, in Ruanda come nella ex Jugoslavia, in Medio Oriente come nella ex Unione Sovietica, abbiamo assistito allo sviluppo di nuove forme di conflitto caratterizzate, secondo Mary Kaldor, direttrice del Center for the Study of Global Governance della London School of Economics and Political Science, tanto da nuovi obiettivi quanto da metodi di combattimento e da tecniche di finanziamento completamente diverse da quelle utilizzate in passato. Le “nuove guerre”sono sempre più spesso provocate dalla rivolta di piccoli gruppi etnici e religiosi o da fazioni politiche e coinvolgono prevalentemente la popolazione civile e ciò è diventato ancora più evidente dopo l’11 Settembre.
Se in passato i conflitti venivano risolti prevalentemente attraverso accordi bilaterali tra stati, negli ultimi 50 anni si è affermato un sistema multilaterale, di cui fanno parte organismi neutrali – governativi e non – in grado di mediare tra le parti durante le varie fasi di un conflitto. Dalla fine della prima guerra mondiale il ruolo delle organizzazioni intergovernative nella gestione delle crisi internazionali è cresciuto in maniera esponenziale seppur tra molti limiti e incertezze. La creazione della Società delle Nazioni rappresenta un primo passo verso la creazione di un sistema multilaterale di gestione del conflitto, processo culminato nel 1945 con l’istituzione delle Nazioni Unite. L’ONU, rimasta per lo più paralizzata durante la guerra fredda a causa del contrasto tra le due superpotenze in seno al Consiglio di Sicurezza, rappresenta uno strumento e una piattaforma per la risoluzione pacifica delle controversie. E’ il capitolo VI della Carta delle Nazioni Unite, intitolato “Soluzione pacifica delle controversie”, che stabilisce che “le parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, devono, anzitutto, perseguirne una soluzione mediante negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta”.
E’ importante notare che l’uso della mediazione e degli altri strumenti sopra elencati, può avvenire in fasi differenti: prima del conflitto (preventive diplomacy), durante il conflitto (peacemaking), dopo il conflitto per consolidare l’accordo raggiunto e rendere sostenibile la pace (peacebuilding). Non si può dimenticare però che le decisioni delle Nazioni Unite non sono vincolanti e il rispetto dell’accordo dipenderà esclusivamente dalla volontà delle parti.
Nonostante le organizzazioni intergovernative e i governi stessi giochino ancora un ruolo centrale nella gestione delle crisi attraverso gli accordi bilaterali, si assiste a una presenza crescente delle organizzazioni non governative nazionali e internazionali nell’arena del conflitto. L’azione di questi nuovi soggetti si inserisce nel sistema della cosiddetta multitrack diplomacy, caratterizzata dall’interazione degli interventi dei diversi attori che compongono il sistema (organismi internazionali, istituzioni, chiese, società civile e privati) e operano a favore del mantenimento della pace influenzandosi reciprocamente.
Le azioni portate avanti dai nuovi soggetti spesso possono arrivare dove gli interventi delle istituzioni e degli organismi intergovernativi hanno fallito, anche grazie alla loro vicinanza al tessuto sociale che dà vita a un approccio bottom-up nella gestione delle crisi internazionali, e alla loro indipendenza da interessi politici e di parte. Con la loro azione cercano di ridurre l’intensità o risolvere i conflitti creando delle piattaforme di dialogo tra le parti e cercando di influenzare le scelte della diplomazia ufficiale e dei governi.
Nonostante la difficoltà di identificare chiaramente i soggetti coinvolti nei conflitti contemporanei, il ruolo di una parte terza neutrale in grado di mediare per raggiungere un accordo che ponga fine allo scontro è diventata di estrema importanza perchè aiuta le parti a trovare una soluzione ottimale grazie all’identificazione e alla comprensione dei reciproci interessi e bisogni.
E’ auspicabile che la mediazione riceva un supporto sempre maggiore all’interno della comunità internazionale e dei singoli stati. Il mondo ha bisogno di un’alternativa non violenta efficace perchè la guerra non è più un’opzione accettabile. Questa è una della sfide più grandi l’umanità deve porsi.
Per maggiori approfondimenti:
– M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Carocci Editore, 1999
– J.Bercovitch e J.Z.Rubin (editori), Mediation in International Relations – Multiple Approaches to Conflict Management, St. Martin’s Press, New York, 1992
– Rosenau J. N. e
E. O. Cziempiel (editori.), Governance Without Government: Order and Change in World Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 2000 (1992)