I. Da quattro anni, da quando sono stati istituiti, prendo parte agli incontri che si svolgono nel mese di ottobre tra i Presidenti e i Procuratori Generali delle Corti di Appello delle Capitali dei 27 Paesi dell’Unione Europea, che sono diventati un osservatorio privilegiato – attraverso un interscambio di modelli processuali e servendosi di un linguaggio chiaro ed accessibile a tutti – per acquisire e sviluppare una comune cultura del processo, in modo da favorire un’armonizzazione giudiziaria capace di realizzare una giustizia di qualità in seno all’Unione Europea. AI di là delle inevitabili divergenze emerse dalla comparazione di sistemi giudiziari diversi per tradizioni storico-giuridiche, per scelte di politica legislativa e per orientamenti e prassi giurisprudenziali, fin dal primo incontro con i colleghi stranieri, avvenuto a Parigi nel 2008, mi sono reso conto che scarti troppo profondi tra uno Stato e l’altro dell’Unione apparivano il sintomo di distonie difficili da giustificare in un contesto di Stati caratterizzato dallo sviluppo di uno spazio comune di sicurezza, giustizia e libertà e con un sempre più ricco bagaglio di tradizioni convergenti, nello spirito unitario accentuato anche dal recente Trattato di Lisbona.
Quello della mediazione/conciliazione é stato il settore dove mi sono sentito sempre un po’ spiazzato, considerato che da tempo l’istituto aveva trovato spazio in altri paesi europei come modo generale di composizione delle controversie, “alternativo” al processo di cognizione dinanzi al giudice statale, ricevendo un esplicito supporto perfino nelle istituzioni dell’Unione europea, per effetto della direttiva comunitaria del 21 maggio 2008, relativa alla mediazione delle controversie transfrontaliere.
E’, quindi, con comprensibile soddisfazione e con animo colmo di speranza, che il 21 ottobre del 2010 ho svolto a Berlino, in occasione del terzo incontro con i Capi delle Corti di Appello europee, una relazione sui tratti essenziali del nuovo istituto regolato dal d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, annunciando che anche l’Italia si era finalmente dotata di una normativa sulla mediazione finalizzata alla conciliazione e che essa, applicata fino a quel momento solo in minima parte, sarebbe entrata in vigore da lì a pochi mesi, aprendo nel nostro sistema giudiziario una strada alternativa all’utilizzo del processo, considerato da sempre il mezzo ordinario e pressoché esclusivo di risoluzione di tutte le controversie civili e commerciali.
La previsione di un sistema generale di composizione delle liti rappresenta per l’Italia una novitá di portata rivoluzionaria nell’amministrazione della giustizia civile, avendo il d.lgs. n. 28 del 2010 esteso a una vasta gamma di controversie l’ambito di operativitá della giustizia alternativa che era oggetto in precedenza di discipline settoriali e lacunose, anche se per due materie (che sono poi quelle connotate da maggiore conflittualitá: il condominio e il risarcimento dei danni da incidenti stradali), l’entrata in vigore, fissata in origine al 21 marzo 2011, é stata fatta slittare di un anno, al 21 marzo 2012.
Ad onta dei dubbi e delle incertezze sollevate dalla rimessione al giudizio della Corte Costituzionale dell’obbligatorietá del tentativo di conciliazione come condizione di procedibilitá per la presentazione della domanda giudiziale e dell’affidamento ad enti pubblici e privati della costituzione di organismi di conciliazione, le nuove norme che costituiscono il “cuore” del d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010 e del Decreto Ministeriale n. 180 del 18 ottobre 2010 che ne detta la disciplina di dettaglio hanno il sapore di una rivoluzione di autentica qualitá etica. Perché la mediazione, come metodo negoziale di composizione delle controversie, non va vista solo e prevalentemente come uno strumento di commodus discessus dalla giustizia civile statale, cioé come un innegabile mezzo deflattivo atto a decongestionare il carico di lavoro dei giudici professionali, ma rappresenta anche uno strumento di accesso alla giustizia, in quanto espressione tangibile di “quel movimento mondiale per rendere i diritti effettivi”, che é stato alla base del grande progetto di Access to justice di matrice nordamericana promosso da Mauro Cappelletti alla fine degli anni settanta e ripreso piú recentemente dal professor Varano. La flessibilità dello strumento, favorendo la composizione delle controversie in modo semplice, rapido e informale, svolge una funzione di rete di contenimento rispetto all’abuso del processo, ma opera anche di sponda per ampliare l’accesso a soluzioni del conflitto che dispongano di plurime vie d’uscita, non limitate all’arbitrato o all’innesco dei procedimenti giudiziari, consentendo alla mediazione di dimensionarsi rispetto a contrasti che la logica del processo potrebbe non riuscire a mettere completamente a fuoco.
La stessa Commissione europea non ha mancato di rilevare come i programmi di Alternative Dispute Resolutions sono nati “per creare una forma di pacificazione sociale su base piú consensuale e appropriata di un ricorso al giudice”, spingendo le parti verso una soluzione amichevole e bonaria, per cui sembra estremamente riduttivo confinare le forti potenzialitá di sviluppo sociale della mediazione al mero sfoltimento dei processi civili, oppure fare i conti sul numero di liti che alleggeriranno i nostri tribunali, senza dare evidenza alla portata avanguardista della novitá introdotta. Anche se forse é la meno valorizzata, la pacificazione é sicuramente la piú importante funzione che la mediazione é chiamata ad assolvere dal punto di vista antropologico e culturale, perché essa guarda fondamentalmente avanti e agisce sul rapporto complessivo tra le parti, puntando a far riscoprire, attraverso un accordo, le virtú del consenso e della negoziazione paritaria.
II. Fatta questa premessa, necessaria a inquadrare l’istituto sotto il profilo giuridico, la prima domanda che viene da porsi, in un’ottica eminentemente pratica, è quali siano i giudici coinvolti nel procedimento di mediazione e quale sia il loro ruolo. E verrebbe naturale rispondere tutti i giudici ordinari, chiamati a trattare “una controversia civile o commerciale che verte su diritti disponibili” (art. 2), visto che una soluzione conciliativa della vertenza è sempre possibile anche in pendenza del giudizio per cassazione. Ma la risposta non sarebbe esatta, perché il giudizio di legittimità prescinde, per sua natura, dal procedimento di mediazione e l’eventuale conciliazione stragiudiziale delle parti può avere effetto solo in presenza di formali rinunce al ricorso o di altri atti che evidenzino la cessazione della materia del contendere e che comportino di per sé l’inammissibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, sempre che prodotti prima dell’attivazione del momento decisionale, e quindi mai a giudizio iniziato (cfr. artt. 372, 380-bis e 390 c.p.c.; ma vedi anche Cass., nn. 8452/2008 e 14657/2009). Fondandosi su base volontaria e sulla fiducia riposta dalle parti, la mediazione è, dunque, istituto estraneo al giudizio di cassazione, mentre è utilizzabile nel giudizio davanti al giudice di pace, sempre che questi non sia adito esclusivamente per la funzione conciliativa non contenziosa prevista dall’art. 322 c.p.c., considerata la sostanziale identità di quest’ultima attività con quella del mediatore.
Introducendo la mediazione, il legislatore ha istituito una sorta di “doppio binario”, distinguendo le controversie civili per le quali il procedimento di mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale riguardo a un gruppo predeterminato di controversie e la cui esperibilità è dunque obbligatoria, e quelle per le quali la scelta di ricorrere a questa procedura è rimessa invece alla discrezionalità delle parti.
Quanto al tipo di attività che il giudice è chiamato a esercitare sull’iter del procedimento di mediazione, bisogna distinguere la mediazione ante causam da quella che può essere svolta nel corso del giudizio. La prima, obbligatoria, è esperibile prima dell’inizio del giudizio di primo grado; la seconda, facoltativa, può avvenire nel corso del giudizio a iniziativa del giudice. In posizione più defilata è prevista una mediazione per così dire concordata, che ricorre quando la clausola di mediazione o di conciliazione sia contenuta in un contratto o nello statuto o nell’atto costitutivo di un ente, dove pure è previsto un intervento del giudice (art. 5 comma 5).
Nei casi di mediazione ante causam, il giudice è tenuto a controllare innanzitutto se sia stato rispettato il dovere di informativa imposto al difensore all’atto del conferimento dell’incarico da parte del suo assistito (art. 4 comma 3 d.lgs. n. 28/2010, entrato in vigore per questa parte fin dal 20 marzo 2010). Il controllo consiste nel verificare se “il documento che contiene l’informazione è sottoscritto dall’assistito” ed è stato allegato “all’atto introduttivo del giudizio”, secondo il modello di informativa proposto in via generale dall’Ufficio Studi delConsiglio Nazionale Forense il 15 marzo 2010. Si tratta di un modello unico, distinto dall’atto di conferimento della procura alle liti, relativo sia alle controversie per le quali il ricorso alla mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale, sia alle controversie in cui l’utilizzo della procedura è meramente facoltativo.
In caso di mancata allegazione di questo documento il giudice procede d’ufficio, informando direttamente la parte dell’obbligo o della facoltà di chiedere la mediazione (art. 4 comma 3, parte finale). L’importanza dell’adempimento dell’informativa – che ha uno scopo essenzialmente promozionale e pubblicitario del “prodotto conciliazione” (sicuramente più capillare e mirato di quello imposto al Ministero della Giustizia dall’art. 21) – è tale che, se la parte non è presente, il giudice dovrà invitare il difensore a produrre l’informativa ovvero disporrà la comparizione delle parti davanti a sé ai sensi dell’art. 117 c.p.c.
E’ appena il caso di osservare che il controllo va fatto tutte le volte che la vertenza riguarda un contenzioso in cui il procedimento di mediazione può essere concretamente e potenzialmente utilizzato (art. 5 comma 1) e non quando l’informativa non è necessaria perché si verte in materia di diritti indisponibili (arg. a contrario, ex art. 2), ovvero quando l’istituto non trova applicazione, come nei casi elencati dall’art. 5 comma 4 (procedimenti per ingiunzione, procedimenti possessori, procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata, procedimenti in camera di consiglio, casi di azione civile esercitata nel processo penale). Il controllo va eseguito, inoltre, dal giudice all’inizio del processo di primo grado e non ogni volta che l’assistito rilasci un’altra procura nel corso del processo, nei vari gradi e fasi del giudizio (per mutamento del difensore, per limitazione della procura a una specifica attività, ecc.).
La seconda indagine che il giudice deve svolgere è prevista dall’art. 5 comma 1 e riguarda la verifica del rispetto dell’obbligatorietà della mediazione in tutti quei casi in cui l’esperimento della mediazione è previsto come condizione di procedibilità della domanda giudiziale (controversie in materia di condominio, diritti reali, divisione, ecc.). L’improcedibilità, oltre a dover essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza, va rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza. Nella stessa norma, poi, sono previsti e regolati gli altri interventi che il giudice è tenuto a fare ove accerti che la mediazione non è stata esperita, ovvero quando è iniziata ma non è stata conclusa.
La mediazione finalizzata alla conciliazione può svolgersi anche nel corso del giudizio, nelle ipotesi in cui il relativo procedimento debba essere obbligatoriamente espletato in via preliminare (c.d. mediazione delegata). Ai sensi dell’art. 5 comma 2, il giudice, anche in sede di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può invitare queste ultime – prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni, ovvero, quanto questa udienza non è prevista, prima della discussione della causa – a procedere alla mediazione.
Se le parti ignorano l’invito il processo prosegue senza che si producano conseguenze ulteriori rispetto a quella sancita dall’art. 116 comma 2 c.p.c. Se, invece, l’invito viene accolto, le parti sono libere di individuare la sede e l’organismo presso il quale avviare il procedimento di mediazione, come pure di negoziare autonomamente, al di fuori dei meccanismi regolati dal decreto legislativo del 2010. L’unico aspetto su cui interviene l’organizzazione giudiziaria sono i tempi, perché il giudice è tenuto ad assegnare il termine di 15 giorni, entro il quale va instaurato il procedimento di mediazione. Calcolando, inoltre, che l’iter della mediazione non può superare i quattro mesi (art. 6), il giudice deve fissare anche l’udienza in prosecuzione in una data successiva alla scadenza di tale termine, a conferma che l’arco di tempo che va dalla fissazione del termine iniziale alla scadenza di quello finale deve essere considerato un mero differimento e non un caso di sospensione del processo. Soluzione, questa, certamente da approvare, perché risparmia alle parti gli incombenti relativi a un’eventuale riassunzione.
Nella mediazione delegata, dunque, la valutazione relativa all’opportunità di seguire (o ripetere) la via conciliativa spetta in prima battuta al giudice, che invita a procedere alla mediazione, e in seconda battuta alle parti, che aderiscono all’invito: l’uno e le altre ritengono, rispettivamente, preferibile e conveniente che sia il mediatore – per le qualità e l’idoneità professionale che si presume e si spera che possegga – ad attivarsi per il raggiungimento di un accordo amichevole. Nella mediazione delegata il giudice si limita a prospettare l’opportunità di una composizione amichevole e negoziata da raggiungersi in via stragiudiziale, senza vincoli sull’an e sul quomodo. E’ bene precisare che la mediazione delegata non costituisce una vera e propria novità. Indipendentemente da quanto previsto dalla Direttiva europea 2008/52/CE (art. 5), già in virtù degli artt. 200 e 696-bis c.p.c. il giudice può “delegare” un terzo (il consulente tecnico) a tentare la conciliazione.
La funzione propulsiva del giudice di appello in questo tipo di mediazione è stata di recente confermata dallo schema di decreto-legge recante “disposizioni urgenti in materia di composizione delle crisi da sovraindebitamento e disciplina del processo civile”, che, all’art. 13, attribuisce al Presidente della Corte di Appello il compito di adottare “nell’ambito dell’attività di pianificazione prevista dall’art. 37 comma 1 del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, ogni iniziativa necessaria a favorire l’espletamento della mediazione su invito del giudice… e ne riferisce, con frequenza annuale, al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministero della Giustizia”.
III. Accanto alla mediazione finalizzata alla conciliazione prima e durante il processo introdotta dal d.lgs. n. 28/2010 continua ad aver vigore la mediazione c.d. endoprocessuale prevista dal codice di rito, che attribuisce al giudice la facoltà, nel giudizio di primo grado (art. 185 c.p.c.), e l’obbligo, nel giudizio di secondo grado (art. 350 c.p.c.), di esperire il tentativo di conciliazione. In questi casi, è evidente, la funzione di mediatore è svolta direttamente dal giudice, sulla base di una valutazione prettamente discrezionale. Finora la mediazione endoprocessuale del giudice non ha mai sortito effetti positivi, anche se è indubbio che nel corso del giudizio, stante il carattere disponibile dei diritti in contesa e lo stadio in cui si trova la causa, l’atteggiamento delle parti possa lasciar intuire qualche margine di successo. Il fatto è che un conflitto radicato in sede giudiziaria difficilmente si può risolvere mediante un procedimento di mediazione, perché le parti, a causa del progressivo deterioramento dei loro rapporti, non sono emotivamente disposte ad accettare la mediazione di un terzo estraneo, che non conosce la causa e deve studiarsi gli atti ab initio, fidandosi di più dell’esperienza e della competenza del giudice.
La novità della mediazione delegata però sta proprio in questo potere persuasivo del giudice, il quale, senza scoprire troppo le carte e senza quindi anticipare soluzioni, può svolgere, con l’ausilio degli avvocati, un’efficace opera di valorizzazione del nuovo strumento della mediazione, illustrando i vantaggi che comporta: dalla flessibilità che permette di ricercare una pluralità di soluzioni conciliative, anche discostandosi dall’oggetto della lite, alla riservatezza in ordine alle dichiarazioni e alle informazioni comunque acquisite (art. 9), ivi compresa la possibilità di sentire le parti separatamente. Esplicita sul punto è la relazione illustrativa secondo cui “il mediatore non è, come il giudice, vincolato strettamente al principio della domanda e può trovare soluzioni della controversia che guardano al complessivo rapporto tra le parti”, aggiungendo che “il mediatore non si limita a regolare questioni passate, guardando piuttosto a una ridefinizione della relazione intersoggettiva in prospettiva futura”. Per non
parlare del risparmio di tempo e di denaro che la mediazione comporta rispetto al giudizio di cognizione ordinario e dei costi e delle agevolazioni fiscali che prevede (art. 17). Non è un caso, quindi, che l’art. 7 stabilisca che i periodi di tempo occorrenti per esperire la mediazione non si computano ai fini dell’indennizzo previsto dalla legge Pinto per l’eccessiva durata del processo.
IV. Il ruolo del giudice nella mediazione non si esaurisce nella disciplina fin qui esaminata, perché il legislatore, deciso ad incrementare in ogni modo il ricorso alla mediazione, persevera nel sanzionare economicamente la parte che voglia comunque essere tutelata in giudizio, in quanto insoddisfatta delle possibilità di vantaggio conseguibili in sede di mediazione. A parte l’omologazione del verbale da parte del presidente del tribunale del circondario dove ha sede l’organismo di conciliazione, prescritta dal primo comma dell’art. 12, che si concreta nel mero accertamento della sua regolarità formale, particolare rilievo assume la disciplina dell’incidenza del procedimento di mediazione sulle spese processuali del giudizio intrapreso a seguito del mancato raggiungimento dell’accordo conciliativo: che fa scattare sanzioni pesanti e in automatico quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa. L’art. 13 impone, infatti, al giudice l’obbligo, nella liquidazione delle spese di giustizia, di tener conto dell’esito infausto della mediazione, condannando la parte vittoriosa a pagare le spese processuali sostenute dal soccombente nel periodo successivo alla proposta, oltre ad altre spese specificamente dettagliate. Disposizione che continua a destare non poche perplessità, specie se il procedimento è stato incentrato su questioni più ampie rispetto a quelle oggetto di giudizio, attesa la natura facilitativa della mediazione, tanto più che il giudice potrebbe non avere piena conoscenza degli elementi e delle ragioni che hanno condotto alla proposta di mediazione rifiutata, come maturate nel corso delle sessioni di incontro separate.
Non senza ragione, quindi, il CSM, nel parere espresso sul disegno di legge delega, proprio con riferimento alle spese del giudizio, aveva suggerito di consentire “al giudice di valutare, al termine della causa, la ragionevolezza e la giustificabilità del rifiuto da parte del vincitore della causa di procedere a un tentativo di risoluzione alternativa, con le necessarie conseguenze in termini di spese del giudizio”. Aggiungendo: “non si dovrà trattare di una conseguenza automatica ma di una conseguenza caso per caso, basata sul comportamento delle parti nella causa e sulla obiettiva incertezza del caso”.
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ritengo che il contributo di ADR CENTER ha la sua connotazione proprio nell’apporto di documentazione e di idee per una cultura della mediazione sempre più consapevole non tanto della sua alternatività ma della sua funzione originale e autonoma nella gestione dei conflitti: non è una alternativa e per giunta non si distingue perchè è senza regole rituali, ma perchè proprio nella libertà di trovare le soluzioni per il caso concreto non ha bisogno di procedure dettagliate e vincolanti, ma di creatività e fantasia tese all’unico scopo di una risoluzione del conflitto che soddisfi nel modo migliore le parti ei loro concreti bisogni; il paradigma operativo si crea avendo presente la finalità della conciliazione.