
Opposizione a decreto ingiuntivo: l’onere di avviare la mediazione grava sull’opponente
Secondo il tribunale di Ravenna, nella persona del Dott. Alessandro Farolfi, in caso di opposizione al decreto ingiuntivo, l’onere di avviare la procedura di mediazione grava in capo all’opponente. Il giudicante ha motivato la propria decisione sulla scorta della famosa pronuncia della Corte di Cassazione secondo la quale “attraverso il decreto ingiuntivo l’attore ha scelto la linea deflattiva coerente con la logica della efficienza processuale e della ragionevole durata del processo; é l’opponente che ha il potere e l’interesse a introdurre il giudizio di merito, cioè la soluzione più dispendiosa… Deriva da quanto precede, pertanto, che è sull’opponente che deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria – prevista quale condizione di procedibilità del giudizio 2 dall’articolo 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010 – perché è l’opponente che intende precludere la via breve, per percorrere la via lunga”.
Tribunale Ravenna, 12 settembre 2017. Giudice Farolfi.
FATTO E DIRITTO
1. La presente decisione viene redatta con le modalità di cui al combinato disposto degli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., come modificati dalla recente legge di riforma n. 69/2009 entrata in vigore il 4 luglio 2009 ed applicabile negli articoli richiamati anche ai procedimenti in corso, in virtù di quanto disposto dall’art. 58 c. 2 della stessa legge.
2. Con atto di citazione ritualmente notificato la società agricola L. Q. s.r.l. ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo n. 648/2015, emesso il 13/04/2015, con il quale è stato alla stessa ingiunto, su richiesta di Banca di I. s.p.a., il pagamento della somma di Euro 178.298,66 oltre interessi e spese del monitorio, lamentando l’improcedibilità della domanda in assenza di preventivo esperimento del tentativo di mediazione ex d.lgs.vo n. 28/2010; l’inesigibilità delle somme richieste e il carattere indebito degli interessi praticati, in forza del dedotto superamento del tasso usurario, ed applicazione di interessi anatocistici vietati. Si è costituita la banca convenuta contestando integralmente l’avverso atto introduttivo e chiedendone il rigetto. La causa ha visto la concessione della provvisoria esecuzione parziale del decreto ingiuntivo opposto ed il rigetto della richiesta di CTU contabile svolta dall’opponente. La causa è stata quindi rinviata per la precisazione delle conclusioni e assegnata allo scrivente magistrato con D. Pres. n. 55/2016. Il procedimento è stato infine trattenuto in decisione all’udienza del 17/05/2017, previa concessione dei termini per il deposito di comparse conclusionali e repliche.
3. L’opposizione deve essere respinta alla luce delle seguenti considerazioni. In primis, infondata appare l’eccezione di improcedibilità della domanda svolta in via monitoria dalla banca opposta. E’ben vero che la causa rientra fra le controversie di carattere bancario cui si applica l’art. 5 co. 1 del cit. D.lgs. 28/2010, che afferma: “Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero i procedimenti…” speciali all’uopo previsti (rileva in questa sede quello dell’art. 128 bis TUB). Tuttavia, tale norma va coordinata con la disposizione contenuta nel successivo co. 4, secondo cui “I commi 1 e 2 non si applicano: a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione ….”. Sul punto è intervenuta la decisione chiarificatrice del S.C., cui questo giudice intende dare piena attuazione, in forza della quale: “attraverso il decreto ingiuntivo l’attore ha scelto la linea deflattiva coerente con la logica della efficienza processuale e della ragionevole durata del processo; é l’opponente che ha il potere e l’interesse a introdurre il giudizio di merito, cioè la soluzione più dispendiosa, osteggiata dal legislatore con il decreto legislativo n. 28 del 2010. Deriva da quanto precede, pertanto, che è sull’opponente che deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria – prevista quale condizione di procedibilità del giudizio dall’articolo 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010 – perché è l’opponente che intende precludere la via breve, per percorrere la via lunga. La diversa soluzione (porre il relativo onere a carico del creditore) sarebbe palesemente irrazionale, perché premierebbe la passività dell’opponente e accrescerebbe gli oneri della parte creditrice. (Del resto – ha concluso la propria indagine la Suprema corte – non si vede a quale logica di efficienza risponda una interpretazione che accolli al creditore del decreto ingiuntivo l’onere di effettuare il tentativo di mediazione, quando ancora non si sa se ci sarà opposizione allo stesso decreto ingiuntivo)” (così Cass. 03/12/2015, n. 24629; nella giurisprudenza di merito Tribunale Vasto 30 maggio 2016; Tribunale Trento 23 febbraio 2016 n. 177; Tribunale Monza sez. I 21 gennaio 2016 n. 156).
Nel caso di specie, inoltre, l’eccezione risulta documentalmente superata dalla circostanza che – dopo la decisione sulla concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto, ex art. 648 c.p.c. – la mediazione è stata comunque esperita ed il relativo verbale negativo depositato agli atti, nel corso dell’udienza del 20/06/2016. Quanto al merito, deve in primo luogo rilevarsi la palese infondatezzza dell’eccezione di inesigibilità delle somme oggetto del monitorio, alla luce dei documenti 1, 2 e 3 prodotti dall’opposta, da cui risulta in atti l’avvenuta costituzione in mora intimata per iscritto e la proposizione di un primo piano di rientro da parte della società L. Q., seguito da un secondo comunicato con racc. 04/12/2014 (doc. 3 cit.) nel quale l’opponente riconosceva addirittura il proprio credito proponendo un’ultima forma di rateazione che dagli stessi motivi di opposizione risulta essere stata completamente disattesa. A tal punto, verificato altresì (alla luce del doc. 9 di parte opposta) che l’indirizzo di spedizione degli estratti conto è avvenuto presso il recapito di altra società su espressa richiesta dell’opponente stessa e che, quindi, nessuna scorrettezza può in tale contegno ravvisarsi a carico della banca, non può che rilevarsi in sede decisoria la estrema genericità con cui sono stati avanzati i motivi di opposizione e la totale assenza di prova. Va sul punto premesso che in particolare il doc. 3 rappresenta un’evidente ricognizione di debito da parte della società agricola, la quale – senza contestare la debenza di interessi – ammette di aver raggiunto il 04/12/2014 una esposizione di ben 158.724,72 di sola linea capitale, promettendo il rientro mediante versamento di un primo pagamento di Euro 50.000 entro il 12/02/2014 e la parte residua in un’unica soluzione entro il 31 marzo successivo. Ora, se tale documento ha consentito in via del tutto precauzionale ed all’inizio della controversia la concessione della provvisoria esecuzione limitatamente a tale importo, in sede decisoria ed a causa cognita – soprattutto dopo la concessione dei termini per richieste istruttorie – lo stesso documento rileva obiettivamente per quello che è: un atto che comporta l’inversione di ogni onere probatorio a carico di parte opponente, ex art. 1988 c.c., che come noto afferma che “la promessa di pagamento o la ricognizione di un debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale. L’esistenza di questo si presume fino a prova contraria”. Spettava perciò a parte opponente provare la non debenza, in tutto o in parte, del credito oggetto di riconoscimento e poi confluito nel decreto ingiuntivo (naturalmente unitamente agli accessori ad esso relativi). Tale prova, tuttavia, non è stata fornita, limitandosi parte opponente ad insistere per l’ammissione di una CTU contabile, senza neppure produrre una consulenza di parte o precisare il carattere originario o sopravvenuto della pretesa usurarietà, l’entità del preteso superamento del tasso soglia, le circostanze che avrebbero determinato una (puramente affermata) concorrente usura soggettiva. In proposito, si deve osservare quanto segue:
a) la CTU non può essere invocata a fini esplorativi, senza indicare in modo specifico le questioni su cui la stessa dovrebbe vertere, ma al solo fine di esonerarsi da ogni onere probatorio, tanto più nel caso di specie in cui, come già osservato, il rapporto contrattuale è stato oggetto di un esplicito riconoscimento accompagnato da promessa di pagamento priva di riserve o di altre eccezioni; sotto questo profilo, si deve infatti ribadire quanto più in generale osservato da Cass. 09/05/2016, n. 9318, secondo cui “la consulenza tecnica d’ufficio non può essere disposta al fine di esonerare la parte dall’onere di fornire la prova di quanto assume ed è, quindi, legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni od offerte di prova, ovvero di compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati” (nello stesso senso Trib. Roma, 11/05/2016, n. 9550);
b) non pertinente appare comunque ogni questione relativa ad un preteso anatocismo illegittimo, se si considera che il contratto de quo è stato stipulato fra le parti in data 29/07/2009 (cfr. doc. 5 di parte opposta) e che lo stesso si colloca perciò, pacificamente, in epoca ben posteriore all’entrata in vigore della delibera CICR del febbraio 2000. Risulta pertanto irrilevante il richiamo dei principi in tema di illegittima capitalizzazione degli interessi anatocistici, svolta con riferimento ai contratti conclusi antecedentemente a tale deliberazione. Se, infatti, la modifica dell’art. 120 TUB che la suppone è stata ritenuta illegittima ove applicata retroattivamente a rapporti anteriori alla sua emanazione, detta disciplina è stata ritenuta incensurabile per il futuro: “È manifestamente inammissibile, considerata l’assoluta genericità delle censure, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, d.lg. 4 agosto 1999 n. 342, che ha modificato l’art. 120, comma 2, d.lg. 1 settembre 1993 n. 385, nella parte in cui prevede che con provvedimento del comitato interministeriale per il credito e il risparmio sono stabiliti modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, in riferimento agli artt. 2, 41, 42 e 47 Cost.” (C. Cost. 4 luglio 2008, n. 254). Quindi, per le clausole che disciplinano la produzione di interessi su interessi (c.d. capitalizzazione degli interessi composti), che siano state concluse in epoca successiva al 30/06/2000 (data di entrata in vigore della delibera CICR cit.), ne va perciò affermata la piena legittimità purchè rispettose del principio di simmetria (identica periodicità rispetto alla capitalizzazione degli interessi attivi). Regola che nel caso di specie appare rispettata, mentre l’art. 120 TUB, a sua volta, nel testo come modificato dalla legge n. 147/2013 deve ritenersi aver avuto vita meramente cartacea ed in concreto inoperante senza delibera attuativa del CICR (cfr. Trib. Torino, 16/05/2015), tanto che il relativo testo è stato già sostituito completamente dalla successiva modifica apportata con l’art. 17 bis del d.l. 14 febbraio 2016, n. 18, inserito in sede di conversione con modifiche attraverso la legge 8 aprile 2016, n. 49, cui è finalmente seguita l’attuazione con delibera CICR 03/08/2016, con entrata in vigore fissata al 1° ottobre 2016;
c) si deve comunque aggiungere, per completezza, che da un lato questo Giudice condivide quella prevalente giurisprudenza di merito secondo cui: “L’art. 1 comma 1 d.l. n. 394 del 2000 (conv. in l. n. 24 del 2001) ha offerto una interpretazione autentica della l. n. 108 del 1996, tale che deve ritenersi che una clausola originariamente non usuraria non possa acquistare in seguito, rimanendo invariato il tasso di interesse, il carattere dell’usurarietà. Il momento cui deve farsi riferimento per la determinazione della soglia usuraria è solo quello convenzionale” (Trib. Palermo, 6 ottobre 2006; nello stesso senso Trib. Roma, 16 novembre 2001, in Corriere Giur., 2002, 510); dall’altro, va inoltre aggiunto che nessuna sommatoria degli interessi corrispettivi e di quelli moratori è possibile, stante la diversa funzione degli stessi e la loro ontologia incompatibilità, essendo tale operazione piuttosto il frutto di una lettura “distorta” della nota Cass. n. 350/2013 (che non ha affatto giustificato tale sommatoria, ma aveva semplicemente ad oggetto un caso nel quale il tasso moratorio era collegato a quello corrispettivo aumentato di uno spread di 3%); peraltro l’opponente non ha neppure specificamente dedotto, in concreto, di aver mai pagato interessi moratori ed in quali IL CASO.it 4 periodi, risultando perciò la relativa questione del tutto generica;
d) le recenti Cass. 22/06/2016, n. 12965 e Cass. 03/11/2016, n. 22270 nell’affermare il carattere innovativo dell’art. 2 bis L. 2/2009 hanno in motivazione affermato che “un argomento decisivo, in favore della portata innovativa della norma in esame, dev’essere infine ravvisato nell’esigenza di assicurare che l’accertamento del carattere usurario degli interessi, dal quale dipende l’applicazione delle sanzioni civili e penali previste al riguardo, abbia luogo attraverso la comparazione di valori tra loro omogenei. Poichè, infatti, ai fini della configurabilità della fattispecie dell’usura c.d. oggettiva, occorre verificare il superamento del tasso soglia, determinato mediante l’applicazione della maggiorazione prevista dalla L. n. 108 del 1996, art. 2, comma 4, al tasso effettivo globale medio trimestralmente fissato con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze in base alle rilevazioni effettuate dalla Banca d’Italia conformemente alle citate istruzioni, è necessario che il tasso effettivo globale applicabile al rapporto controverso, da porre a confronto con il tasso soglia, sia calcolato mediante la medesima metodologia”. Pertanto, allo stato, sono stati respinti i tentativi di parte della dottrina (ed invero in precedenza accolti da una pronuncia del S.C. in sede penale) di non applicare le istruzioni fornite dalla Banca d’Italia agli intermediari, anche in considerazione del fatto che si verrebbero in tal modo a confrontare grandezze ottenute attraverso l’applicazione di metodi matematici difformi;
e) risultano del tutto assenti e comunque non dedotte in modo specifico le condizioni per la integrazione del reato di usura soggettiva, posto che “il reato di usura si configura certamente per l’oggettivo superamento del prestabilito tasso-soglia degli interessi, indipendentemente dalla condizione della persona offesa (art. 644, comma 1, c.p.). Tuttavia, il comma 3, secondo periodo, dell’art. 644 c.p. prevede anche un criterio diverso, soggettivo, che prescinde dalla misura del tasso legalmente qualificato e si aggancia a due condizioni, lasciate all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito: a) la sussistenza di una sproporzione tra la prestazione dell’usuraio e gli interessi (o altri vantaggi o compensi) corrisposti dalla vittima, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari; b) la situazione di difficoltà economica o finanziaria in cui deve trovarsi la vittima. Sotto il profilo dell’elemento soggettivo del reato, per il quale è richiesto il dolo generico, sono comunque necessarie la coscienza e volontà della portata illegale della prestazione usuraria e dell’illiceità degli interessi o altri vantaggi ricevuti, in concomitanza (per l’ipotesi di usura “soggettiva”) con la conoscenza della precaria condizione dell’usurato” (Cass. 19/08/2010, n. 32362). Per il profilo oggettivo occorre, invece, dedurre delle condizioni specifiche che evidenzino la sproporzione, cosa che è in radice esclusa laddove non si evidenzino in modo obiettivo le difficoltà finanziarie ed economiche nelle quali si trovava il debitore, la consapevolezza delle stesse ad opera del finanziatore ed il carattere sproporzionato delle condizioni applicate al rapporto, rispetto alle quali manca qualunque indicazione che lo stesso non fossero corrispondenti a quelle di mercato del momento in cui furono pattuite. Ogni ulteriore accertamento in tal senso, pertanto, in assenza di deduzioni più specifiche o richieste di prova, risulta ultroneo.
L’opposizione va quindi respinta, con conseguente conferma in toto del decreto ingiuntivo opposto. Segue condanna dell’opponente alla refusione delle spese di questo giudizio, come da liquidazione in dispositivo. Non sono dimostrati, invece, i presupposti per l’applicazione dell’art. 96 c.p.c. La lettera di detta disposizione, secondo cui il giudice condanna il soccombente “al risarcimento dei danni”, sta alla base della comune opinione dottrinale e giurisprudenziale secondo cui tale norma, si colloca nel comparto aquiliano, in rapporto di specialità rispetto alla regola generale dettata dall’art. 2043 c.c. Ora, poiché nella specie il decreto ingiuntivo è stato in massima parte reso esecutivo con un provvedimento reso a seguito di riserva assunta alla prima udienza del procedimento, l’opposta avrebbe dovuto dimostrare, quantomeno a livello indiziario, che la pendenza del giudizio ha determinato pregiudizi ulteriori rispetto a quelli di fatto già ristorati con la piena refusione delle spese, tanto per la fase monitoria che per quella di merito. In ogni caso, non appare ravvisabile con certezza quello stato di “mala fede” o “colpa grave” che – si ritiene – deve comunque sussistere anche in relazione alla possibile liquidazione equitativa introdotta con il terzo comma del citato art. 96 c.p.c., inserito dall’art. 45, comma 12, della l. 18 giugno 2009, n. 69. In proposito: “ai fini dell’applicabilità dell’art. 96, comma 3, la mala fede o la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé” (in motivazione, Cass. n. 7726/2016), ed a tale fine non può non rilevarsi nella fattispecie l’esistenza di alcune questioni di diritto oggetto di soluzioni, sia pure minoritarie o cronologicamente superate, fra loro distoniche.
P.Q.M.
Il Tribunale di Ravenna, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nella causa sub R.G. 2793/2015, ogni diversa istanza domanda od eccezione respinta, rigetta l’opposizione proposta dalla società agricola L. Q. s.r.l.; conseguentemente conferma definitivamente il decreto ingiuntivo opposto, da rendersi integralmente esecutivo; condanna parte opponente a rifondere le spese di lite sostenute da parte opposta, che liquida in Euro 7.795 oltre spese generali del 15%, IVA e CPA come per legge.
Ravenna, 12 settembre 2017
Il Giudice Dott. Alessandro Farolfi