Alcuni tra i più recenti sviluppi della mediazione e dei suoi rapporti con il processo, nella giurisprudenza che si sta sviluppando in alcune sedi giudiziarie, dopo le modifiche introdotte dal decreto “del fare”, aprono interessanti prospettive, e non solo, come pure è certamente importante, in quanto segnali di una ripresa, dopo il crollo, soprattutto psicologico, determinato dalla sentenza della Corte Costituzionale, o meglio dalla sua “lettura” estensiva, largamente eccedente la sua portata strettamente giuridica.
Se ripresa sarà, non è ancora possibile dirlo, considerando che il nuovo meccanismo potrebbe anche non determinare, almeno nell’immediato, un numero elevato di mediazioni vere e proprie, ma solo di “primi incontri”, o addirittura di primi “mancati” incontri (molto meno romantici, per la verità) con esiti scoraggianti, specie per gli organismi che si sostengono solo sui proventi delle indennità, già provati dalla traversata nel deserto di questo ultimo anno.
Naturalmente, mi auguro che i prossimi sviluppi siano molto più incoraggianti, come pure qualche timido segnale potrebbe far sperare, anche se rimane l’opposizione radicale dell’avvocatura associata, malgrado il fatto che con la nuova legge si sia passati da un vero e proprio tentativo obbligatorio di mediazione al semplice obbligo di valutare la possibilità di un tentativo di mediazione, molto simile a quella mandatory consideration of mediation che può essere disposta dal giudice civile inglese come strumento di case management.
Non mi pare che in Italia si percepisca in modo corretto, neppure dalla dottrina, questa fondamentale differenza tra i due meccanismi, una differenza che ritengo possieda un indubbio rilievo anche ai fini della tutela del diritto di azione e del diritto di difesa sanciti dall’articolo 24 della Costituzione.
Ma, in ogni caso, come dicevo, la pratica più recente della mediazione, in particolare quella della cd mediazione “delegata”(0 “demandata”, come più raramente viene definita, io preferirei “disposta dal giudice”, formula certamente più precisa, ma sfortunatamente più lunga e quindi meno amata) presenta aspetti di grande interesse, almeno dal mio punto di vista, che vanno ben oltre i pur positivi, e potenzialmente decisivi, effetti di questo strumento sulla diffusione della mediazione, effetti che toccano la stessa configurazione teorica del rapporto tra giurisdizione ed ADR.
Già prima della pronuncia della Corte, in realtà, si era assistito, in alcuni uffici giudiziari (per la verità pochi, purtroppo, tra i quali si deve segnalare per la sua lungimiranza l’allora Sezione di Ostia del Tribunale di Roma), all’uso molto diffuso, e perfezionato sul piano metodologico attraverso una sia pur limitata selezione dei casi, dello strumento giudiziario dell’invito alle parti a ricorrere alla mediazione, uno strumento che, benché caratterizzato dalla volontarietà, poteva comunque iscriversi, sia pure in senso lato, tra gli strumenti di case management, e che, almeno in uno degli uffici giudiziari in questione, quello della sezione distaccata di Ostia, già citato, aveva prodotto anche, contro ogni aspettativa degli scettici, un significativo calo della pendenza, sulla base dei dati resi noti in occasione di convegni e seminari.
Oggi, però, dopo le modifiche legislative recentemente introdotte, ed in particolare dopo l’introduzione del potere del giudice di disporre anche d’ufficio la mediazione, e dell’articolo 185-bis cpc, con la “proposta” conciliativa del giudice, il fenomeno sta assumendo connotati diversi e molto più significativi, a mio giudizio.
Si può dire, anzi, che questo nuovo quadro normativo configuri un potere del giudice che può stavolta definirsi, non in senso lato, come in precedenza, ma in senso proprio, come uno strumento di case management, inteso non nel significato generico e vago con il quale viene spesso usato in Italia, ma nel senso, che possiede negli ordinamenti di common law dove è nata l’espressione, di una gestione individualizzata del processo anche attraverso l’uso di poteri discrezionali esercitabili anche d’ufficio.
I nuovi scenari di questa tendenza, che, per fortuna, si sta estendendo a numerose sedi giudiziarie, e che ha già sviluppato una copiosa giurisprudenza in materia di applicazione della nuova disciplina anche alle cause pendenti, toccano in realtà non solo le caratteristiche della mediazione in sé considerata, ma anche i rapporti tra giurisdizione e mediazione, ed in prospettiva anche altre forme di ADR (del resto, già nel 2001 un disegno di legge, oggi totalmente dimenticato, in materia di accesso alla giustizia prevedeva anche un’ipotesi di arbitrato disposto anche d’ufficio dal Giudice, in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti).
Da un lato, le ordinanze dei Giudici divengono sempre più motivate ed articolate, rispetto ai primi, isolati provvedimenti che si erano avuti prima della sentenza della Corte, quando, del resto, la mediazione richiedeva il consenso delle parti.
Dall’altro, e si tratta in questo caso di uno sviluppo veramente innovativo, nel contesto giurisprudenziale italiano, alcune di queste ordinanze, nel motivare la scelta del referral, entrano in qualche modo nel merito della causa, per valutare la stessa opportunità della mediazione, ed anche senza pronunciarsi sulla fondatezza delle domande ed eccezioni, ne evidenziano talvolta le ricadute sul piano processuale, con le possibili complicazioni sul piano probatorio, mettendo in questo modo in rilievo, almeno indirettamente, la stessa difficoltà di accoglimento delle une e delle altre, in tal modo incentivando le parti alla mediazione, e fornendo loro importanti strumenti di lettura.
In sostanza, l’ordinanza di mediazione, nel motivare sulla opportunità del referral, può e forse “deve” creare una cornice di riferimento per le parti che le possa agevolare nella ricerca di una soluzione concordata. Ma se questa giurisprudenza rappresenta uno sviluppo (nuovo) di uno strumento già noto, quella in materia di articolo 185-bis cpc e di proposta conciliativa del Giudice può determinare un ulteriore salto qualitativo. Mi riferisco, in particolare, ai casi nei quali la proposta del Giudice si accompagna alla previsione di un successivo tentativo di mediazione, nel caso in cui le parti non accettino la proposta del Giudice. In questo caso, siamo in presenza di un meccanismo, di creazione giurisprudenziale, la cui efficacia complessiva è certamente superiore, a mio giudizio, a quella che i due istituti (proposta e mediazione disposta dal Giudice) possiedono separatamente.
La combinazione dei due strumenti configura quello che si può definire come uno strumento non più di risoluzione alternativa, ma di risoluzione integrata delle controversie, in parte attuata con un provvedimento giudiziario ed in parte con un accordo conciliativo. Naturalmente, in questa versione, l’integrazione riguarda gli strumenti e non il contenuto dell’accordo, che sarà comunque frutto o dell’accettazione della proposta o della conciliazione stragiudiziale. Ma non può sfuggire che, in prospettiva, questo fenomeno integrativo potrà condurre all’integrazione tra provvedimento giudiziario e mediazione.
La proposta del Giudice potrebbe infatti riguardare solo alcuni punti della controversia, lasciando alla mediazione la risoluzione delle rimanenti questioni, ma la stessa proposta, e la eventuale mediazione potrebbero seguire ad una decisione in senso tecnico, con sentenza non definitiva, che abbia ad oggetto una o più questioni giuridiche prioritarie, oppure risolvere alcuni punti e lasciare alla successiva sentenza la decisione definitiva.
Per la verità, non credo che, malgrado l’apparenza, si possa parlare di sviluppi procedurali rivoluzionari, in senso proprio, considerando che, nella pratica, si potrebbero trovare numerosi esempi, anche in passato, di conciliazioni che, di fatto, si sono realizzate dopo una decisione parziale. Ma la novità consiste proprio nella consapevole strutturazione di questo meccanismo, e soprattutto nella sua gestione da parte del Giudice.
Sono sviluppi già presenti in altri ordinamenti, almeno in parte, e che vengono certamente incentivati dalle esigenze di rapidità e di flessibilità sempre più impellenti, che spingono a trovare soluzioni appropriate per i singoli problemi, che, per alcune questioni richiedono necessariamente una pronuncia, mentre, per le rimanenti, può ottenere migliori risultati un accordo tra le parti.
E forse si potrebbe vedere anche in questi sviluppi un’applicazione di quella balanced relationship tra giurisdizione e mediazione che è obbiettivo della Direttiva UE sulla mediazione. Si tratta di tendenze che non si possono realizzare nello stesso modo e nella stessa estensione in tutti gli ordinamenti, ovviamente, ma che penso esprimano esigenze ormai comuni a situazioni nazionali diverse.
Una prospettiva di questo tipo potrebbe rappresentare una strada praticabile per superare lo stallo in cui si trova oggi in Italia il dibattito, o forse sarebbe meglio dire la querelle, sulla mediazione obbligatoria, uno scontro infinito ed insolubile, che tende sempre più a radicalizzarsi, da entrambe le parti, nel quale, come nell’esempio dei duellanti di Conrad, lo scontro diviene alla fine lo scopo stesso della contesa.
L’impegno per la diversificazione degli strumenti di soluzione delle controversie potrebbe in questo modo coincidere con quello per il potenziamento del processo civile, facendo cessare, come si dice nel linguaggio del processo, la stessa materia del contendere, e disarmando i duellanti.
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Per chi interessato a leggere ordinanze di conciliazione endoprocessuale o mediazione delegata (rectius, disposta dal giudice), vedere
“Non solo sentenze, la mediazione e dintorni” https://www.facebook.com/nonsolosentenze
oppure http://www.adrmaremma.it , voce News (in quest’ultima sono riportate circa 20 ordinanze).