Il 31 maggio del 2011, nelle sue Considerazioni finali di Governatore della Banca D’Italia Mario Draghi affermava: “Va affrontato alla radice il problema di efficienza della giustizia civile: la durata stimata dei processi ordinari in primo grado supera i 1.000 giorni e colloca l’Italia al 157esimo posto su 183 paesi nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale”; e continuava: “nostre stime indicano che la perdita annua di prodotto attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile potrebbe giungere a un punto percentuale”, pari oggi a circa 18 miliardi.
Dalle parole di Draghi, si sono succeduti sei Governi politici, sostenuti alternativamente da tutti i partiti dell’arco parlamentare, e tecnici con altrettanti Ministri della giustizia: Angelino Alfano, Nitto Palma, Paola Severino, Annamaria Cancellieri, Andrea Orlando e Alfonso Bonafede. Tutti, chi più chi meno, rivendica i successi ottenuti durante il proprio mandato. I tavoli e le commissioni di tecnici impegnati in varie proposte di riforma sono state decine. Eppure, i cambiamenti effettivi sull’efficienza della giustizia sono minimi. Senza scomodare le classifiche internazionali di settore che ci vedono sempre inchiodati agli ultimi posti tra le economie sviluppate, basta parlare con gli utenti del servizio giustizia (cittadini e imprese) che hanno frequentato un tribunale civile o, ancora peggio, ci hanno rinunciato per sfiducia e inefficienza nel sistema.
Riprendendo le parole di Draghi del 2011, in questi anni nessun Governo ha avuto la forza politica e forse la volontà, di “affrontare alla radice il problema”. L’approccio dell’introduzione di modifiche chirurgiche, quasi esclusivamente concentrate sul rito del codice di procedura civile non ha evidentemente funzionato. Prima di ragionare sull’ennesima riforma, o meglio semplificazione, della procedura civile il nuovo Ministro della giustizia del nascente Governo Draghi dovrebbe considerare le seguenti proposte con una visione ben più ampia del “servizio giustizia civile”.
Coinvolgere competenze trasversali al Ministero della giustizia.
Tutte le riforme proposte sono state frutto di un confronto (spesso a porte chiuse) con solo una parte degli operatori del servizio giustizia (i vertici delle associazioni di avvocati e dei giudici) gestito dai magistrati dell’Ufficio legislativo del Ministero della giustizia. È mancato un confronto ben più ampio con esperti nazionali e internazionali in vari campi rilevanti come, ad esempio, dell’economia della giustizia, della sociologia del diritto, dell’organizzazione del lavoro in organizzazioni complesse (come sono i tribunali), della statistica giudiziaria e del monitoraggio in tempo reale dei risultati, dell’intelligenza artificiale nel campo della giustizia (come gli esperti della commissione Cyberjustice del CEPEJ) e ovviamente della risoluzione stragiudiziale delle controversie. Ad esempio, tutti documenti di best practice sull’efficienza della giustizia prodotti dal CEPEJ anche con il contributo di diversi esperti italiani non sono mai stati presi in seria considerazione. Nominare un commissario straordinario alla giustizia civile o un economista come sottosegretario con adeguati poteri potrebbe essere un buon inizio e un messaggio di discontinuità con il passato.
Riformare l’organizzazione dei tribunali differenziando le competenze giuridiche da quelle manageriali.
Nonostante le carenze di organico di magistrati e personale che devono essere sicuramente colmate in breve tempo, l’enorme differenza di performance dei vari tribunali dipende evidentemente dai singoli magistrati che ne governano la gestione. L’inviolabile principio di indipendenza e autonomia della magistratura non ha nulla a che vedere con il necessario obbligo per i magistrati di attenersi a procedure standard e omogenee in tutto il territorio nazionale volte all’efficienza organizzativa coordinate da professionisti con le adeguate competenze. L’ex Presidente del Tribunale e della Corte d’Appello di Torino Mario Barbuto nel suo libro L’efficienza della giustizia passa da Strasburgo descrive bene cosa si dovrebbe fare e come è stato trattato dalla politica e dai suoi colleghi magistrati durante la sua esperienza ministeriale con il Ministro Orlando. Una profonda riforma dell’organizzazione della magistratura e l’introduzione di “checks and balances per ridimensionare il potere giudiziario”, come ben descrive Roger Abravanel nel suo ultimo libro Aristocrazia 2.0, non è certo agevolata dalle centinaia di magistrati ordinari, contabili e amministrativi fuori ruolo che riempiono tutti i vertici dei ministeri, e del Ministero della giustizia in particolare.
Evitare una visione tribunale-centrica della risoluzione dei conflitti.
I tribunali, anche se perfettamente efficienti, non possono rappresentare i soli luoghi di erogazione del servizio di risoluzione dei conflitti. Convogliare tutte le controversie nei tribunali produce l’effetto opposto di quello desiderato nel garantire il sacrosanto diritto all’accesso alla giustizia, o meglio della soluzione dei conflitti in tempi e costi ragionevoli per cittadini e imprese. Sia Andrea Orlando che Alfonso Bonafede hanno prima istituito due commissioni di esperti sulle procedure stragiudiziali per poi non seguire nessuna delle raccomandazioni indicate. Al di là delle dichiarazioni ufficiali del Ministero, qualunque esperto del settore delle procedure stragiudiziali può confermare che le proposte contenute nella riforma del processo civile in tema di procedure stragiudiziali presentato dal Governo Conte II, a cui tra l’altro il Recovery Plan fa ampio riferimento, vanno nella direzione opposta a quella auspicata. Solo per citare alcuni esempi di successo, le esperienze pilota dell’Agcom nella risoluzione dei contenziosi tra consumatori e operatori telefonici, dell’ABF nel settore bancario, del progetto Giustizia semplice 4.0 del Tribunale di Firenze e della partecipazione a un primo incontro di mediazione in alcune limitate materie del contenzioso civile dovrebbero essere rafforzate.
La proposta di “Come ridurre i tempi della giustizia civile” elaborata insieme al Presidente Mario Barbuto, Carlo Cottarelli e Alessandro De Nicola nell’ambito dell’Osservatorio dei Conti Pubblici potrebbe costituire una prima base di discussione per affrontare alla radice il problema.
Ora o mai più.