Riflessioni a margine di Cass. n. 24476/ 2019
Venti anni per una causa condominiale
Nel corso dell’anno 1999 il Condominio XY deliberava di ripartire in un certo modo le spese sostenute per lavori straordinari, gravandone il condòmino sig. Tizio per la somma (allora) di vecchie lire 12.720.845, poi diventate € 6.569,58. Il condòmino si rendeva moroso e nel marzo 2000 il Condominio otteneva il decreto ingiuntivo.
Il condòmino si opponeva al decreto, ritenendo la ripartizione errata in quanto adottata in violazione dei criteri di legge. In data 7 dicembre 2007 il Tribunale respingeva l’opposizione. Con sentenza del 20 gennaio 2015 la Corte di Appello respingeva l’appello.
Con ordinanza interlocutoria n. 24476/2019 del 1° ottobre 2019 la Seconda Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione, ravvisando nella fattispecie questioni di carattere strettamente processuale “decise in senso difforme dalle sezioni semplici” ovvero che “investono questioni di massima di particolare importanza”, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Secondo una ragionevole previsione, se rimessa effettivamente alle Sezioni Unite, la causa sarà discussa tra la fine del 2020 e la prima metà del 2021. Trattandosi di questioni di rito si intravedono due possibili soluzioni: da un lato, la conferma della pronuncia della Corte di Appello ed il definitivo rigetto della opposizione senza che si sia mai entrati nel merito; all’opposto, la riforma, con (probabile) rinvio al giudice di merito per “rifare” il processo ed entrare poi e finalmente nella sostanza vera del problema.
Nel secondo caso le parti sapranno se quella ripartizione del 1999 era giusta o sbagliata non prima del 2024 o del 2025, senza contare la eventualità di un nuovo ricorso alla Suprema Corte: più di vent’anni per sapere se € 6.569,58 erano troppi, giusti o troppo pochi.
L’altissimo valore aggiunto e l’importanza della funzione nomofilattica della Suprema Corte non sono minimamente in discussione. Ed anzi, il caso singolo, pur decontestualizzato dal suo ambito individuale, consentirà alle parti, ai difensori ed ai magistrati chiamati quotidianamente a giudicare sulle singole fattispecie di sapere con più solida certezza di principi:
- se deve ritenersi comunque nulla o se sia invece annullabile (e quindi soggetta al termine di decadenza per l’impugnazione) una delibera di ripartizione che si ritenga adottata in violazione dei criteri legali di cui agli artt. 1123 e ss. c.c. o stabiliti in apposita convenzione;
- se nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali il giudice possa sindacare o rilevare le eventuali ragioni di nullità della delibera assembleare di ripartizione su cui si fonda l’ingiunzione;
- se – infine – nell’eventuale statuizione di rigetto della opposizione al decreto debba o non debba riconoscersi un giudicato implicito sulla assenza di cause di nullità della delibera.
E ciò non è affatto cosa da poco, nell’interesse della certezza delle regole (forma = garanzia = diritto, recitano gli antichi brocardi) e nell’ottica statistico/ deflattiva, stante la litigiosità ed i “numeri” del contenzioso condominiale.
Il punto di vista del mediatore
Dal punto di vista del mediatore, la questione assume invece un aspetto radicalmente diverso. Innanzitutto l’attenzione si focalizza pressochè esclusivamente sul merito: in mediazione, infatti, non c’è spazio per le questioni formali e di rito. Vi è la necessità di rispettare il principio di imparzialità e di indipendenza del mediatore e dell’organismo, nonché di conformarsi, in caso di accordo, alle norme imperative e all’ordine pubblico. Ma in mediazione si discuterà sempre e solo del merito: id est della sostanza vera del problema.
Da quel (poco) che si può intuire dall’ordinanza della Corte, nel caso specifico la questione di fatto da cui è partita la controversia attiene all’uso esclusivo o meno di una terrazza condominiale: si suppone che fosse abbastanza pacifico che nell’un caso le spese si dovessero ripartire in un certo modo, nell’altro caso in un altro.
Si può intuire altresì che l’iniziale e vero interesse delle parti fosse quello non già di far accertare l’ampiezza del giudicato esterno della statuizione di rigetto della opposizione a decreto ingiuntivo, ma – più semplicemente – di sapere chi doveva pagare, e come, e quanto.
Una controversia come tante in cui si esprime la particolare litigiosità di cui si è detto, in cui si è discusso e si discuterà ancora per anni di questioni processuali, con buona pace della ripartizione delle spese e della sorte dei 6.569,58 €. dei lavori straordinari.
In quelle di oggi, invece, se trattate in mediazione, un franco e diretto confronto tra le parti assistite dai legali (magari con l’aiuto di un immediato ed informale accesso in loco), gestito con l’accortezza, la professionalità e l’esperienza di un (ben scelto) mediatore di un organismo di qualità, può innanzitutto condurre ad un accertamento del fatto più attendibile e rapido rispetto a quel che si potrà ottenere all’esito di una prova testimoniale e/o di una perizia giudiziale.
Un minimo di esperienza giudiziaria consente di rendersi conto che, soprattutto a distanza di tempo, i testi dimenticano, sfumano il ricordo, sovrappongono persone e circostanze, confondono sensazioni ed emozioni, date, fatti e accadimenti, personali e non.
Neppure per una perizia la causa (ordinaria ovvero ATP) offre alcun vero valore aggiunto rispetto a quel che si può fare in mediazione. Come è noto, il giudice sceglie nell’albo dei consulenti e sulla base delle diverse competenze e delle più articolate specializzazioni ed alla fine ha di fronte una rosa, più o meno ampia, di possibili nominativi. A quel punto il giudice è tenuto a rispettare il criterio di automaticità e rotazione nell’assegnazione degli incarichi: se alla scorsa udienza o nel fascicolo trattato appena prima ha affidato una consulenza simile al consulente A, oggi/ ora/ nel fascicolo che interessa un incarico analogo dovrà molto probabilmente assegnarlo al consulente B, il prossimo a C e così via.
In altri termini: la individuazione del consulente finisce per dipendere da fattori che stanno al di fuori dal controllo delle parti, quali l’iscrizione e l’organizzazione dell’albo, l’ordine alfabetico dei consulenti, la quantità di incarichi affidati, la contingenza dell’udienza (è noto che per le mille casualità di una udienza, un fascicolo può essere trattato prima o dopo un altro simile, con tutte le conseguenze di cui si è detto).
In mediazione, invece, le parti potranno confrontarsi e discutere (magari anche vivacemente) non già dopo ed all’esito della perizia, ma prima e subito sull’individuazione e sulla scelta del consulente, trovare quello veramente più adatto e affidarsi a chi raccolga la fiducia di entrambi.
L’impegno del mediatore sarà, infatti, nel senso di far loro capire che non è possibile che sul mercato non esista una ingegnere, un architetto, un geometra, un ragioniere, un commercialista di fiducia per entrambi: in Albi con migliaia di professionisti uno che vada bene a tutti c’è per definizione e basta solo cercarlo.
In più, la scelta definitiva potrà avvenire all’esito di un serio approfondimento in contraddittorio: contatti preliminari di entrambe le parti col/ coi consulente/-i; acquisizione di progetti di massima e di preventivi da valutare insieme; un mini bando tra diversi professionisti preselezionati dalle parti; un confronto tra le varie offerte; nonché addirittura un colloquio congiunto de visu in una sessione dedicata.
La possibilità della perizia tecnica in mediazione
“Lo si guarda in faccia prima di affidargli il lavoro e gli si dà l’incarico se, e solo se, raccoglie la fiducia di entrambi” dicono molto spesso i mediatori per responsabilizzare le parti!
Ma una volta superato questo ostacolo ed individuato il professionista ad hoc attraverso il diretto esercizio del potere decisionale (non più “scaricato” su un terzo estraneo ed affidato in sostanza al caso), è statisticamente accertato in primis un più alto livello di “tenuta” del risultato e poi un evidente risparmio economico (un compenso invece dei “soliti” tre: CTU + 2 CTP) e di tempo (peraltro anche la consulenza è soggetta alle regole del processo e, se sorge questione di procedura, si corre il rischio di bloccare il giudizio per i vent’anni di cui sopra!).
Così accertato il fatto, sarà allora più semplice per gli avvocati, sulla base di dottrina e giurisprudenza (di legittimità e di merito, anche quella più specificamente locale e del momento) e dei fattori metagiuridici in gioco (i c.d. “interessi reali ulteriori delle parti”, irrilevanti in ambito processuale), affrontare e risolvere le questioni di diritto sostanziale ed individuare col contributo di tutti una soluzione conforme alle norme imperative ed all’ordine pubblico, conferendo al patto valore e forza di titolo esecutivo ex art. 12, co. 1. D.lgs.n. 28/ 2010.
Tutto ciò può (forse) ancora accadere nella vicenda che ha occasionato l’ordinanza della Suprema Corte. Certamente può accadere in tanti altri casi che si sono riproposti ed in quelli che si riproporranno.
Con la mediazione si perderà qualcosa sotto il profilo della nomofilachia processuale, ma sarà più facile ottenere nel concreto ed in modo giusto, rapido ed economico “tutto quello e proprio quello …” cui si riferivano i Maestri processualisti dell’ultimo secolo dello scorso millennio.