Ripubblichiamo un articolo del 12 giugno del 2003 di MondoADR
Intravedendo in me una qualche attitudine genetica ai processi conciliativi ho partecipato ad un corso di ADR soprattutto per una mia curiosità verso il nuovo tipica dell’età giovanile, stemperata da un certo scetticismo che credo legittimo in un rientro a scuola a cinquantasei anni suonati.
Mi chiedevo ad esempio: ma perché mai due avvocati esperti che conoscano i rispettivi clienti e le ragioni del loro contendere dovrebbero affidare ad un terzo una conciliazione non riuscita a loro stessi? Non sarebbe questa l’ammissione del proprio fallimento, ed uno spogliarsi della “pratica”? Forse che il conciliatore ha influenze mediatiche e carismi ignoti al comune professionista?
Debbo dire che con il decorrere delle ore di corso intensivo (e molto professionale) all’atteggiamento sufficiente è subentrata una progressiva ed autentica voglia di conoscere questo strumento: che mi pare, ora che ne ho percepito i fondamentali, di estrema duttilità nell’applicazione a qualsiasi contesto negoziale o giudiziario, anche in fase preventiva. Per cui sinceramente mi auguro l’accelerazione dell’iter parlamentare che dovrebbe riconoscerlo nel nostro ordinamento: per carità, riconoscerlo, non estenderne l’obbligatorietà a fini deflattivi del contenzioso giudiziale e neppure irretirlo in qualche apparato dello stato, poiché lo strumento è offerto per sua natura alla libertà ed al convincimento delle parti, e mi sembra meno gestibile nel contesto di un negoziato obbligatorio.
Questa è d’altronde l’esperienza maturata nei paesi, prevalentemente anglofoni, ove l’Adr ha consentito la soluzione di conflitti di grande rilievo, viene frequentemente adottato dalle aziende (con evidente finalità autopromozionale) per dirimere controversie con la clientela; viene adottato a fini di prevenzione di conflitti in contratti di durata (grandi appalti, joint ventures, partnership per intraprese commerciali) attraverso periodici e cadenzati momenti di incontro tra le parti e di monitoraggio del rapporto in itinere.
Credo di aver capito alcune cose probabilmente ovvie, che per me tuttavia non lo erano prima. Ad esempio:
– Che la conciliazione professionale e non buonista presuppone la conoscenza di tecniche anche sofisticate, per nulla manipolatorie ma divenute oggetto di ricerca di studio e di sperimentazione al pari di qualsiasi altro intervento specialistico. La preparazione universitaria ed i corsi di accesso alla professione legale, alla magistratura o in altri ambiti professionali non contemplano questa disciplina, ed il tentativo di conciliazione che sia svolto nelle aule del tribunale o negli studi professionali risente della delega in bianco lasciata alla buona volontà ed alla attitudine personale dei soggetti.
– Che il conciliatore, il quale gode la fiducia di entrambe le parti (che d’altronde lo hanno scelto), è in grado di interagire con ciascuna di esse e quindi di meglio cogliere le “positività” che possono scaturire per entrambe dalla soluzione del conflitto, anche attraverso proposte innovative, non necessariamente riconducibili alla “materia del contendere”. Dirò di più, il conciliatore professionale è in grado, dalla sua visuale, di capire e far capire alla parte quale sia la vera (profonda) ragione del conflitto, che spesso sfugge agli stessi protagonisti.
– Non può negarsi che la ricerca -seria- di un diverso assetto di interessi sia facilitata dal solo fatto che le parti abbiano deciso di investire danaro (la conciliazione professionale non può essere gratuita) ed energie in un tentativo da svolgersi in terreno neutrale a ciò deputato, in un tempo prefissato, necessariamente breve. Mi chiedo quante volte abbiamo definito “transattivamente” cause al limite della conclusionale, solo perché il meccanismo del contenzioso una volta innescato nei suoi termini canonici è andato stancamente avanti per anni, per mancanza di tempo e di momenti dedicati ad un serio tentativo di conciliazione: il che non vale ovviamente nei casi in cui una o entrambe le parti trovino nella causa stessa la ragione di essere o la soluzione “strategica” del problema.
– L’Adr è una soluzione alternativa, lo dice la parola stessa: esce dalla logica della decisione del conflitto affidata ad un terzo, arbitro o giudice e questo costituisce il “nuovo”, l’uovo di Colombo. La professionalità e la tecnica del conciliatore consiste nel non espropriare le parti delle rispettive ragioni, ma nell’aiutarle a intraprendere soluzioni che loro stesse condividano, per cui l’accordo, se raggiunto, non abbisogna di formule sacramentali (esecutive) perché entrambe le parti ne condividono il contenuto, di cui si sono appropriate nell’iter conciliativo.
– Ho anche capito che in ogni caso le procedure di Adr possono integrare un valore aggiunto per le parti ed i rispettivi legali: perché entrambe sono poste in grado di percepire la diversa angolazione dalla quale le loro “ragioni” possono essere viste da un terzo – tecnico, il che nella nostra esperienza avviene di norma con la lettura della motivazione di una sentenza. Uscire dallo schema (non sempre privo di conflittualità) cliente/avvocato e respirare un aria diversa può rappresentare un esperienza, anche sotto il profilo professionale/culturale, che merita di essere vissuta.
Credo si sia capito che l’istituto mi ha convinto, e credo che i tempi siano più che maturi per la sua diffusione nel nostro sistema. Occorrerebbe un cospicuo investimento pubblico per la formazione e la conoscenza, ma ho superato l’età delle favole.
Credo invece che la consapevolezza in ambito professionale delle potenzialità di questo strumento (anche da parte dei giudici, e non solo degli avvocati, al corso erano presenti commercialisti, ingegneri e tecnici di varia foggia), accompagnata dalla concreta proposta di avvalersene fatta ai clienti, costituisca un valido strumento per il suo ingresso diffuso nel contesto sociale.
Molto dipenderà anche dal livello professionale che sapranno esprimere le prime strutture di conciliazione, ed in particolare i primi conciliatori formati, perché è certo, anche questo ho capito, che non sarà sufficiente la “patente” a fare un buon conciliatore. Direi che ciò presuppone anche una percezione più evoluta della nostra professione, in senso meno causidico, più aperta a vedere la positività di un ruolo volto alla prevenzione ed alla soluzione del conflitto.
Una cosa è certa: la nostra professione, anche quando sarà svolta a fianco del cliente prima e durante la procedura di Adr o nella veste di conciliatore designato dalle parti, ne esce valorizzata, senza nessuna abdicazione di ruolo.
(Piero Giorgio Tentoni)
Tratto ed adattato dal foro riminese 3/2002