Aristotele definiva i vizi capitali gli “abiti del male” derivanti dalla ripetizione di azioni che a lungo andare formavano le abitudini di una persona. Il rimedio consisteva in una sorta di educazione, per trasformare da cattive a buone le abitudini.
Occupandomi da tempo di tematiche attinenti alla gestione del conflitto, ho voluto dedicare questo articolo a tre vizi capitali, quali la superbia, l’invidia e l’ira perché secondo la mia esperienza molti conflitti hanno una radice profonda e invisibile in questi “abiti del male”, trasformatisi, nel tempo, in peccati capitali con l’influsso della chiesa. Ho scelto tra i sette vizi capitali questi tre, in quanto costituiscono i cosiddetti vizi relazionali nel senso che hanno bisogno dell’altro per esistere.
LA SUPERBIA. Come si può riconoscere la superbia?
La modalità espressiva per eccellenza del superbo è la millanteria, l’altezzosità, l’alterigia. Il superbo racconta cose ovvie, come se stesse raccontando novità, oppure fatti inventati per destare ammirazione e per innalzarsi agli occhi degli altri. Il superbo ha la necessità di essere superiore agli altri disprezzandoli nel contempo. Il superbo ti ascolta ma poi parla di se. Non lascia la parola all’altro, deve uscire dalla situazione come vincitore. Il superbo non ama rinunciare alla propria opinione che difende ad oltranza come l’unica verità possibile, in effetti chi potrebbe dargli ordini?
Premessa questa, breve e immediata, descrizione non tutti i superbi sono uguali: esiste il superbo introverso, che parla poco per paura di svelare il suo bluff, ma le sue parole sono impresse nel suo sguardo, nella mimica facciale e nel suo atteggiamento altezzoso; il superbo simpatico, colui che tiene banco, che conosce tutte le barzellette, che parla di se stesso mettendo in ombra gli altri e trattandoli come spalle del suo protagonismo; il superbo delle disgrazie che racconta tutto quello che gli capita di spiacevole, è come se iniziasse una gara delle disavventure, schiacciando gli altri ammutoliti da così tanta sfortuna; il superbo mascherato da umile, che fa propaganda circa la sua semplicità d’animo e che tratta gli altri come un pubblico sfumato necessario all’attore che recita la sua parte.
Come si comporta il superbo?
Di solito la persona superba si oppone ad ogni tentativo di trasformazione interiore e non riesce proprio a vedere ciò che c’è di buono nell’altro. Non perdona e non esprime i suoi sentimenti e le sue emozioni. In genere non intende ragione e non tollera alcuna contraddizione, predilige la compagnia degli adulatori.
Come si distingue la superbia dall’orgoglio?
In realtà esiste un confine molto sottile tra superbia e orgoglio e per eccesso un consolidato senso di dignità può sfociare nella superbia. L’orgoglio consiste in un giusto e positivo senso di stima verso le proprie capacità e risorse, che ci permette di difendere la nostra dignità di esseri umani e il rispetto per i nostri valori. Se osserviamo attentamente la nostra realtà circostante non potremo fare a meno di notare che esiste poco orgoglio e molta superbia, poca dignità e molta apparenza: per apparire si è disposti persino a svendersi e servire.
Cito di seguito qualche detto comune che individua la superbia: Avere la puzza sotto il naso…Arricciare il naso… Stare in punta di piedi…
La superbia è il più frequentemente punito e il più difficilmente sanabile di tutti i vizi. (Niccolò Tommaseo )
L’affermazione, il successo, il consenso, sono componenti di rilievo nell’attivare la superbia, sono una potente calamita che attira a sé potere ma, non bisogna dimenticarlo, accende anche in chi circonda quell’altro vizio capitale che segue e cioè l’invidia!
L’INVIDIA. Tutti sono capaci di condividere le sofferenze di un amico. Ci vuole, invece, un’anima veramente bella per godere del successo di un amico. (Oscar Wilde)
L’invidia come dice Gianfranco Ravasi nel suo libro: “Le porte del peccato” germoglia da un altro vizio capitale, la superbia. E’ l’attestazione di una radicale frustrazione del proprio io, che si sente inferiore rispetto a un altro e non si rassegna a questa sensazione o verità. …Malattia dell’anima l’invidia…sposa della superbia, ha per sorella la gelosia e per figlia l’infelicità…
Si può considerare l’invidia come il peccato “opposto” alla superbia: mentre la superbia consiste in un’eccessiva considerazione di sé, l’invidia è caratterizzata da una bassa autostima e da una esagerata valutazione degli ostacoli e delle difficoltà. Spesso, la superbia costituisce una formazione reattiva nei confronti dell’invidia, cioè esprime il contrario di quello che si sente perché non ci si può permettere di manifestare il vero. L’atteggiamento opposto a quello che si vive, in questo caso il vizio principale sarebbe l’invidia nascosto dalla superbia.
Il filosofo Salvatore Natoli evidenzia che l’invidia è una “impotenza di carattere costitutivamente relazionale”, il successo e la supremazia dell’altro sono considerati un attentato all’identità dell’invidioso e quindi vissuti come una ingiustizia. L’invidia è una predisposizione d’animo che ci induce a desiderare quello che gli altri hanno, ma contemporaneamente che lo perdano. Il sentimento che segue l’invidia è godere del male altrui o rattristarsi del bene altrui.
Ma in sintesi che cosa è l’invidia?
E’ dire: quello che hai tu è mio, è mio, e mio? Non proprio. E’ dire: ti odio perché tu hai ciò che io non ho e che desidero. Io voglio essere nella tua posizione, con le tue opportunità, con il tuo fascino, con la tua bellezza, con le tue capacità e la tua ricchezza spirituale…(Muriel Spark – Invidia).
Chi prova invidia tende a mal vedere le altre persone, l’invidia non porta nessun piacere è un’afflizione dello spirito in quanto non si esaurisce mai e ci sarà sempre un’altra persona da invidiare. L’invidia è utilizzata come meccanismo di difesa per innalzare se stessi e disprezzare gli altri. Il paragone con gli altri che tanto piace all’invidioso non ha senso in quanto siamo tutti unici e originali, la curiosità ci serve per conoscere il mondo, per informarci ma non per confrontare il proprio valore, per questo le domande dell’invidioso vanno distinte dalla sana curiosità. Ciascuno è originale e ciascuno è diverso, perché devo voler essere come l’altro? Spesso, infatti, il soggetto invidioso possiede delle buone qualità che possono anche essere riconosciute, ma non le considera sufficienti e si ritiene un incapace.
Come si comporta l’invidioso?
L’invidioso assume spesso atteggiamenti e comportamenti ben precisi e, quindi, riconoscibili. Tra i più tipici comportamenti dell’invidioso c’è il disprezzo dell’oggetto invidiato (“questa cosa, che io non ho, non vorrei comunque averla perché non mi piace”); una celebre e proverbiale rappresentazione di questo atteggiamento è la favola di Esopo La volpe e l’uva. L’uomo saggio non smette di aver caro ciò che possiede perché qualcun altro possiede qualche altra cosa. L’invidia, in effetti, è una delle forme di quel vizio, in parte morale, in parte intellettuale, che consiste nel non vedere mai le cose in se stesse, ma soltanto in rapporto ad altre.
Scriveva Paul Valery nei suoi Cattivi Pensieri: “Considerate bene ciò che invidiate e vi accorgerete che c’è sempre una felicità che non avete, una libertà che non vi concedete, un coraggio, un’abilità, una forza, dei vantaggi che vi mancano e della cui mancanza vi consolate con il disprezzo”
C’è dunque un vero e proprio accecamento che rende l’invidioso un individuo rabbioso precipitandolo così al successivo vizio dell’ira.
L’IRA. L’ira è un vizio, lo sdegno una virtù…nell’etica nicomachea di Aristotele si legge: “Adirarsi è facile, ne sono tutti capaci, ma non è assolutamente facile e soprattutto non è da tutti adirarsi con la persona giusta, nella misura giusta, nel modo giusto, nel momento giusto e per la giusta causa”.
In effetti la rabbia non sempre riesce ad essere rivolta verso il soggetto giusto creando così delle situazioni succedanee quali l’individuo diventato “capro espiatorio” e/o l’individuo che trattiene la rabbia con tutti i conseguenti effetti deleteri sia fisici che psichici.(es. balbuzie). Alcune forme di rabbia si cronicizzano e prendono il nome di rabbia bianca come il mutacismo e la lamentosità. Ci accorgiamo che si tratta di rabbia “mascherata” dalla nostra reazione che sarà uguale a quella di quando ci sentiamo aggrediti.
L’ira intesa come rabbia cieca e furibonda si contrappone al sano sdegno contro la violenza e la prepotenza. Esiste dunque uno sdegno da coltivare per non cadere nell’indifferenza morale che però a volte, lascia spazio all’aggressività. Cicerone nell’opera Tusculanae definisce l’ira come una “malattia dell’anima”. L’ira la riconosciamo con il rapporto che ha con la ragionevolezza, nell’ira furibonda la passione violenta sfugge al controllo della razionalità e imbocca la strada della follia. Inoltre, l’iracondo non distingue tra la persona e il fatto ingiusto accaduto, ma si accanisce a prescindere.
La reazione incontrollata connessa all’ira si aggancia con qualche carenza personale nel senso di autostima o di accettazione….”La forza dell’altro non è altro che la nostra debolezza”.
Le definizioni usate nel nostro parlare quotidiano che si riferiscono all’ira ci danno una immediata visione di quanto questo vizio sia comune nei racconti di storie conflittuali: “si è rivolta a me come una belva”, “mi sembrava un cavallo imbizzarrito che fa perdere le staffe a chi lo cavalca”, “era inviperito”, “mi ha fatto uscire dai gangheri”, “aveva la bava alla bocca”, “digrignava i denti”, “si mangia il fegato”, “si fa il sangue cattivo”, “è accecato dalla rabbia”, “aveva un diavolo per capello”.
CONCLUSIONI. Ritengo che una salutare attività di gestione del conflitto non possa prescindere dal prendere in considerazione quei sentimenti primari di base contenuti nei tre vizi capitali quali la superbia, l’invidia e l’ira. Il professionista che per eccellenza lavora con relazioni, da contenuti emotivamente significativi, non può trascurare gli eventuali influssi “peccaminosi” di questi vizi nel contesto esaminato e nella gestione dei colloqui con le parti.
Oltre a ciò, soffermarsi su questi temi, contribuisce, ad avviare un processo di autosservazione nel professionista stesso a beneficio della sua imparzialità e autorevolezza. Il più delle volte quando in un conflitto è ravvisabile una “questione di principio” le ragioni sottese, anche se inizialmente impercettibili, possono originarsi proprio da queste “cattive abitudini.” Il professionista, consapevole e sensibile verso questi temi, può fare molto nei caucus, infatti spesso la superbia, l’invidia e l’ira sono sintomi che la persona sta accudendo il proprio bisogno vitale di riconoscimento. Ciascuno di noi desidera essere riconosciuto per quello che è nella sua specificità. Tramite l’ascolto empatico il mediatore può far emergere il vero bisogno nascosto dietro il conflitto e per esempio accorgersi che la vera necessità delle parti era quella di non voler vedere trascurato il loro modo di pensare e di agire. Facilitando la comunicazione tra le parti e dando uguale dignità e importanza ai vari punti di vista, il non detto può emergere e “i vizi”, che nascondevano i bisogni sottesi, lasciare spazio a quelle virtù che ci permettano di difendere la nostra dignità di esseri umani e il rispetto per i nostri valori.
Il professionista assume cosi il ruolo di maieuta del conflitto facilitando la miglior soluzione possibile, derivante dall’emersione del reale bisogno delle parti. Non è un caso che ogni vizio richiama una virtù e può rappresentare una sorta di linguaggio capovolto della direzione intrapresa: cioè quello che avrebbe dovuto esserci e non è potuto accadere!
4 commenti
Molto meditato e molto da meditare. Ottimi spunti e suggerimenti per un mediatore. Grazie.
Grazie!
Molto corretto nello specifico
Grazie
Grazie per i tanti spunti di conoscenza e riflessione.