Nella motivazione della recente sentenza della Suprema Corte del 27-03-2019, n. 8473 si può leggere che “la novella del 2013, che introduce la presenza necessaria dell’avvocato, con l’affiancare all’avvocato esperto in tecniche processuali che “rappresenta” la parte nel processo, l’avvocato esperto in tecniche negoziali che “assiste” la parte nella procedura di mediazione, segna anche la progressiva emersione di una figura professionale nuova, con un ruolo in parte diverso e alla quale si richiede l’acquisizione di ulteriori competenze di tipo relazionale e umano, inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate”.
L’affermazione non ha scarso rilievo e per apprezzarne appieno la portata occorre, innanzitutto, esaminarne gli effetti. Per certi versi parrebbe trattarsi del classico “obiter dictum”, una riflessione che emerge nello sviluppo di un più ampio discorso e che, volendo semplificare, potrebbe lasciare il tempo che trova.
Letta alla luce del consolidato principio della “giurisprudenza normativa”(http://www.law-economics.net/workingpapers/L&E-LAB-LAW-27-2010.pdf), però, assume tutt’altra portata e considerazione. La stessa Corte di Cassazione ha infatti da tempo chiarito che nel nostro ordinamento “semiaperto”, “l’attuale modo di essere e di strutturarsi del nostro ordinamento, in particolare civilistico, è basato su una pluralità di fonti, con conseguente attuazione di cd. principi di decodificazione e depatrimonializzazione e la funzione interpretativa del giudice in ordine alla formazione della cd. giurisprudenza- normativa, quale autonoma fonte di diritto”.
In una simile cornice, le considerazioni assumono senz’altro una certa autorevolezza. D’altro lato nel complessivo dipanarsi dell’iter logico-giuridico della motivazione, appare evidente che il ruolo dell’avvocato in mediazione diventa un ruolo chiave nel complessivo impianto disegnato dal d. lgs. 28/2010. Come spesso accade quindi, la Cassazione ci sta dicendo che, ancora una volta, il legislatore ha detto meno di quello che avrebbe dovuto dire: l’avvocato negoziatore è diverso dall’avvocato difensore in giudizio.
La differenza sta tutta in quelle “competenze ulteriori di tipo relazionale e umano” che purtroppo le università italiane (tranne eccellenti eccezioni) non forniscono: si tratta del cd. soft skill. La capacità di comunicare in maniera efficace, di essere empatici e di saper creare interazioni costruttive: tutti aspetti assai nuovi per l’avvocato aduso alla polemica, alla battuta sferzante ed alle strategie processuali basate sul limitare lo scambio di informazioni (condivido quelle a me utili e nascondo quelle scomode), ma anche al professionista forense rinchiuso sui profili giuridici e poco incline a scoprire e tutelare gli interessi del cliente che sono spesso non giuridici, ma economici, personali o addirittura emotivi.
Già, l’emotività: quella che le più recenti e concordanti ricerche nell’ambito delle neuroscienze, individuano come il vero motore decisionale che alberga nel nostro cervello. E’ un’evidenza scientifica che l’uomo sia molto, ma molto meno razionale di quanto si creda.
L’avvocatura è da tempo ad un bivio che fatica a vedere: ormai non c’è manager degno di questo nome che non sappia quanto sia importante l’intelligenza emotiva e l’uso professionale di competenze relazionali. Siccome – altro dato di fatto – il 75% degli incidenti aerei è dovuto al cd. fattore umano (errore decisionale), a livello mondiale, nel settore aeronautico la preparazione tecnica dei piloti è costantemente affiancata da quella relativa all’implementazione delle interazioni personali.
Tutte le grandi imprese sanno quanto siano importanti le competenze trasversali per avere team di lavoro efficaci. Nella stessa direzione stanno iniziando a muoversi gli operatori sanitari, considerato che nelle sale operatorie gli errori di comunicazione possono uccidere (ed hanno ucciso) ignari pazienti.
Perché gli avvocati non dovrebbero cambiare? Se è perché all’ ”università non ce l’hanno insegnato”, arrendiamoci all’evidenza: il mondo è ingiusto e non c’è un grande demiurgo che possa sapere a priori e con anni di anticipo quel che potrà essere necessario domani.
D’altronde non si tratta di diventare psicologi, ma solo guardarsi un po’ intorno, uscire dalla propria “zona di confort” (l’orticello in cui si sta bene perché si sa già cosa fare e come) ed iniziare un percorso di formazione (che potrebbe anche esser letto come “crescita personale”) per acquisire un nuovo modo di comunicare e trattare con gli altri, con grande beneficio a livello individuale e sociale.
Oggi sappiamo quello che occorre per essere più efficaci e sta solo a noi cambiare.