Dalla relazione svolta dal Primo Presidente della Cassaazione Giorgio Santacroce il 6 maggio 2013 al convegno “L’arbitrato: un’altra strada” organizzato dalla Corte Arbitrale Europea presso la Corte d’Appello di Roma
<<Parto da un dato di comune acquisizione. Lo snodo di collegamento tra giustizia ed economia passa dalla manutenzione del processo civile. Ciò emerge a chiare lettere, tanto per citare un recente dato normativo, dall’art. 54 del decreto c.d. sviluppo del 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge n. 134 del 2012, che apre il capo VII, contenente “ulteriori misure per la giustizia civile”, rendendo evidente che certe iniziative (come la previsione di un filtro di ammissibilità dell’appello civile) sono, nelle intenzioni del legislatore, funzionali al raggiungimento di un obiettivo di politica economica, che è quello di farne delle “misure urgenti per la crescita del Paese”.
Purtroppo esiste una vistosa sproporzione del numero delle cause civili in entrata rispetto alla capacità di smaltirle, sia per la sopravvenienza di sempre nuove tutele (si pensi alle materie dell’antitrust e delle class action, al riconoscimento e alla revoca dello status di rifugiato politico, ai nuovi risvolti del diritto di famiglia, come l’affido condiviso, l’amministrazione di sostegno, l’equiparazione dei figli di persone non sposate ai figli nati in costanza di matrimonio, ecc.), sia per un incremento progressivo e inarrestabile della domanda di giustizia. Nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, non si manca di evidenziare che ormai spetta sempre più ai giudici – senza che per questo si debba accusarli di indebite invasioni di campo o di esercitare un’illegittima supplenza legislativa – “risolvere le più gravi e difficili questioni di diritto civile poste dal cambiamento dei costumi, dalla scienza e dalla tecnica” (come i temi “eticamente sensibili” e quelli che rientrano più in generale nella bioetica). Questo – si spiega – non è l’effetto di distrazioni o ritardi del legislatore, ma del fatto che la vita propone ormai una molteplicità di situazioni sempre nuove e sempre variabili, che nessuna legge può cogliere e disciplinare nella loro singolarità, in un inseguimento continuo e irraggiungibile.
Di qui la necessità di una drastica limitazione del ricorso al giudice, riducendo il flusso delle controversie in entrata e contrastando la convinzione tutta italiana che rivolgersi al giudice statale sia l’unico rimedio a disposizione del cittadino per ottenere il riconoscimento e l’affermazione dei propri diritti. All’estero funzionano da tempo istituti come l’arbitrato e la mediazione, che da noi hanno rivestito invece sempre un ruolo di carattere sussidiario e subalterno.
La realtà giudiziaria ha dimostrato da tempo l’infondatezza della tesi dell’esclusività giurisdizionale e dello stesso postulato del monopolio statale del diritto e della giurisdizione per cui “il giudice e soltanto il giudice possa dichiarare il diritto nei rapporti tra i privati”. Ha scritto Carmine Punzi nella sua recente seconda edizione del “Disegno sistematico dell’arbitrato”, che, se appare essenziale al nascere dello Stato il monopolio della forza nell’attuazione coattiva dei diritti e se può apparire essenziale il monopolio legislativo, non altrettanto essenziale è l’affermazione del monopolio della composizione delle controversie e in particolare del potere di risolverle e deciderle mediante lo jus dicere. La realizzazione dell’ordinamento giuridico in relazione ai singoli, concreti episodi della vita può infatti avvenire non solo con lo spontaneo adeguamento dei consociati, ma anche quando le parti, di fronte all’insorgenza di un conflitto, impegnandosi in un’opera di buona volontà, riescano a porre in essere atti tendenti a comporre la lite, escludendo il ricorso alla giurisdizione dello Stato.
E’ in questo contesto che si colloca la categoria degli “equivalenti giurisdizionali” creata da Carnelutti o, se si vuole, dei negozi di composizione o prevenzione di controversie giuridiche e, in epoca più recente, degli strumenti alternativi per la soluzione delle controversie (noti con l’acronimo ADR: Alternative Dispute Resolutions), in relazione ad alcuno dei quali, e mi riferisco proprio all’arbitrato, è stata messa in discussione, in sede storica, la legittimazione. Il comune carattere stragiudiziale delle varie opzioni per la risoluzione delle controversie, mentre evidenzia per un verso le innumerevoli declinazioni che il fenomeno delle ADR ha subito e subisce, esprime per altro verso l’impossibilità di ricondurre ad unità il fenomeno.
Ferma restando in ogni caso la piena cittadinanza dell’arbitrato e delle altre forme di composizione delle controversie come rimedi alternativi al processo giurisdizionale, costituiscono ancora aperta materia di indagine il rapporto tra gli strumenti alternativi (primo fra tutti l’arbitrato) e la giurisdizione (quanto a natura, forme, coordinamento ed effetti), sia l’individuazione dei tratti specifici di ognuno di essi nella loro concreta esperienza e disciplina normativa.
Sono fin troppo note del resto le divergenze e le incertezze che attraversano dall’interno lo stesso istituto dell’arbitrato, di cui continua a postularsi il dualismo rituale-irrituale per non rendersi conto delle difficoltà che incontra un corretto inquadramento sistematico dei vari strumenti di composizione dei conflitti. Conciliazione, arbitrato, mediazione (lasciamo per un attimo da parte la transazione, che è un mezzo tipico di autocomposizione o di composizione diretta della lite) sono modi di definizione di una controversia, alternativi allo jus dicere del giudice statale. Ma il superamento del conflitto tra le parti si realizza nelle varie ipotesi normativamente previste con modalità ed effetti diversi, giacché solo la conciliazione e la mediazione estinguono veramente la lite, che viceversa il lodo dell’arbitro si limita a risolvere.
Per individuare i caratteri che distinguono l’arbitrato dagli altri strumenti alternativi, va innanzitutto precisato che nell’arbitrato la manifestazione e l’incontro della volontà delle parti avviene ex ante e si sostanzia in un patto compromissorio (o, per usare la terminologia del D.Lgs. n. 40 del 2006, in una convenzione di arbitrato), che contiene la declinatoria e la rinuncia alla giurisdizione dello Stato e, ad un tempo, la devoluzione della controversia e il conferimento del potere di giudicarla e di deciderla agli arbitri.
L’intervento degli arbitri si ha solo postea, e si concreta nel giudicare e decidere la controversia, che gli arbitri effettuano in virtù del potere ad essi attribuito dalle parti nel patto compromissorio e in base al criterio di giudizio – diritto, equità – che le stesse parti hanno preventivamente stabilito o che risulta fissato in un precetto di legge, che le stesse non hanno voluto o, in alcuni casi, non hanno potuto derogare. E’ classica l’affermazione di Salvatore Satta che il compromesso e il conseguente arbitrato contengono già in se stessi (nel fatto dell’accordo e nella rinuncia al giudice), la composizione della controversia. Anche quando davanti agli arbitri si svolge un giudizio a volte assai aspro, la controversia è già finita col compromesso. La parte che riesce ad indurre l’altra parte a stipulare un compromesso, ha già ottenuto una vittoria, in quanto è riuscita ad escludere l’azione e la giurisdizione e quindi – sia pure in potenza – ha composto la lite.
L’arbitrato, dunque. Un’altra strada. Una strada eteronoma di risoluzione dei conflitti, alternativa alla giurisdizione per comporre una controversia giuridica. Un altro sportello – per dirla con Antonio Buonaiuto, Presidente della Corte di Appello di Napoli – per risolvere le liti dei cittadini. Il Presidente Buonaiuto è solito far uso di una metafora, il giudice è come uno sportellista che ha davanti a sé una lunghissima fila di cittadini. Per risolvere i loro problemi bisognerebbe chiedere al legislatore di aprire nuovi sportelli e ai cittadini di non rivolgersi sempre e soltanto allo sportello giudiziario. Uno sportello il legislatore ha ritenuto di poterlo individuare fino all’altro ieri nella mediazione finalizzata alla conciliazione, ma l’esperimento non ha dato i risultati sperati.
Rispetto alla mediazione, dove il mediatore non ha alcun potere decisionale e si limita ad assistere le parti nel raggiungimento di un loro accordo diretto, con la scelta in favore dell’arbitrato, i compromettenti non attendono che il terzo offra loro una soluzione intermedia, che in qualche modo rifletta il senso delle loro reciproche concessioni, perché, davanti agli arbitri, essi postulano una soluzione giusta, secondo diritto o secondo equità. Agli arbitri, che sono dei privati, si conferisce il potere di rendere una decisione su uno specifico thema decidendum e thema probandum, all’esito di un giudizio che si svolge secondo forme procedimentali, con la garanzia del contraddittorio e della parità delle armi.
Sulla mediazione, sulla quale erano state riposte non poche speranze di riuscire a decongestionare il contenzioso civile, si è registrata qualche mese fa una battuta d’arresto. La Corte costituzionale, con una sentenza del 23 ottobre 2012, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina attuativa della mediazione finalizzata alla conciliazione per essere andata oltre il perimetro fissato nell’art. 60 della legge-delega del 18 giugno 2009, n. 69 facendo venir meno il carattere obbligatorio del tentativo come condizione di procedibilità in una vasta gamma di materie.
E’ chiaro che la pronuncia della Consulta non tocca il merito della scelta dell’istituto e, quindi, non ne sancisce la fine, così come non fa cessare la funzionalità dei numerosi organismi di mediazione abilitati, in primis di quelli forensi.
Non a caso nella Relazione Finale del Gruppo di Lavoro sulle riforme istituzionali istituita il 30 marzo 2013 dal Presidente Napolitano, nel capitolo V dedicato all’amministrazione della giustizia, tra gli obiettivi da perseguire nel settore della giustizia civile, si indica “l’instaurazione effettiva di sistemi alternativi (non giudiziari) di risoluzione delle controversie, specie di minore entità, anche attraverso la previsione di forme obbligatorie di mediazione (non escluse – si dice – dalla pronuncia costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità della mediazione obbligatoria solo per motivi formali, per carenza di delega, e non per altre ragioni come si paventava). La proposta dei saggi di reintrodurre l’obbligatorietà della mediazione civile e commerciale è stata accolta con favore dall’Unioncamere, che, per bocca del suo vicesegeretario generale, non ha esitato a dichiarare che il sistema camerale è pronto a mettere la propria esperienza a disposizione del Paese affinché il ritorno all’obbligatorietà possa essere solido ed efficace, superando quelle resistenze che in passato l’avevano ostacolata. Ma apprezzamenti ugualmente positivi ha espresso il vice- presidente di Assomediazione, che è l’associazione che raccoglie il maggior numero di organismi di mediazione e di enti di formazione, regolarmente iscritti nel Registro presso il Ministero della Giustizia.
Da parte mia non ho mancato di far presente nella relazione inaugurale dell’anno giudiziario del 2013 che c’è da sperare che le competenze acquisite finora non andranno disperse, soprattutto se il legislatore riuscirà ad apportare i giusti correttivi per calibrare al meglio questo modo di risoluzione alternativa delle controversie civili e commerciali, perfezionandone la funzionalità (se del caso, restringendolo rispetto a materie non idonee, come le successioni e i contratti assicurativi, e cambiando i criteri di scelta dei mediatori) e gli avvocati, riscoprendo l’utilità e l’indispensabilità dell’istituto, sapranno dar vita a un ciclo nuovo, convincendosi una buona volta che la mediazione è davvero necessaria per lo snellimento della giustizia civile.
Seguo con interesse le iniziative volte a migliorare e a rilanciare l’istituto e la sua obbligatorietà, le novità che si intendono apportare in tema di “negoziato assistito”, di miglioramento della qualità dei mediatori, di accrescimento del ruolo del giudice. Ma con tutta franchezza non vedo, al momento, spazi per un ripristino della mediazione obbligatoria che gli avvocati continuano duramente a contrastare. Io sarei propenso a muovermi su altri fronti, puntando sulle materie che possono costituire possibile oggetto di conciliazione (che non sono solo quelle indicate nel decreto legislativo n. 28 del 2010 ovvero che non tutte quelle finora elencate si prestano a una possibile mediazione), potenziando i necessari incentivi economico- fiscali e procedurali, riducendo l’importo del contributo unificato per gli utenti che abbiano utilizzato la mediazione ma che non siano arrivati a un accordo positivo, eliminando le conseguenze negative della proposta verbalizzata dal mediatore, intervenendo sul fronte dei controlli sul servizio fornito da alcuni organismi (che spesso, siamo obiettivi, è tutt’altro che di qualità). L’avvento della mediazione obbligatoria è stato visto e interpretato da molti come un business da non lasciarsi scappare, sono sorti come funghi organismi privi del minimo di flessibilità indispensabile per mettere in luce i reali vantaggi della mediazione ed incoraggiarne l’utilizzo, molti di essi sono risultati privi di quei requisiti di efficienza, serietà, trasparenza e correttezza che la legge ha richiesto in modo estremamente vago e generico senza specificare chi è tenuto ad assicurarne l’osservanza, si è pensato di poter improvvisare le doti del mediatore agganciandole a mero possesso di una laurea breve chiamando il mediatore a trovare una soluzione in conflitti radicati come quelli legati alla materia successoria (in cui il giudice impiega anni e anni per risolverli e un mediatore con la laurea breve dovrebbe invece risolvere in un incontro informativo, avvalendosi delle sue capacità di negoziazione e di empatia (io e l’Università di Roma Tre stiamo pensando a migliorare la formazione dei mediatori demandandola alle università, se non altro per garantirne una migliore qualità giuridica).
Lo stato di impasse della mediazione obbligatoria può far conquistare spazio alla mediazione delegata, su invito del giudice, che è molto diffusa e praticata nei paesi di common law e può facilitare strategicamente la composizione di vertenze che hanno per oggetto materie non coinvolte dall’originaria mediazione obbligatoria. Ma anche su questo fronte non nascondo il mio scetticismo.
Resta la strada dell’arbitrato di cui la Cassazione, a sezioni unite (3 agosto 2000, n. 527), ha riconosciuto espressamente natura negoziale, in quanto processo privato ontologicamente alternativo alla giurisdizione statale. Ma non è tutto. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 376 del 2001, ha affermato che una questione di legittimità costituzionale può essere sollevata da chiunque eserciti “funzioni giudicanti per l’obiettiva applicazione della legge in posizione super partes”, ancorché si tratti di soggetti “estranei alla organizzazione della giurisdizione”, condizioni queste che – ad avviso del giudice delle leggi – sussistono negli arbitri perché “l’arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile, per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con la garanzia del contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria”. Per concludere che “il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione”.
Io mi fermo qui per non trasformare la mia introduzione al tema di oggi (pomposamente etichettata come “prolusione”) in una vera e propria relazione, che è compito affidato ad altri. E, in particolare, al professor Romano Vaccarella e all’avvocato Caravitta di Toritto, rispettivamente Presidente e Segretario Generale della Delegazione Lazio della Corte Arbitrale Europea e all’avvocato Mauro Rubino Sammartano, Presidente della Corte Arbitrale Europea di Strasburgo. A loro va il mio sincero e sentito ringraziamento.>>