
La L. 134/2012, che ha convertito con modifiche il Decreto Sviluppo, entrata in vigore il 12.8.2012 e divenuta efficace l’11.9.2012, ha apportato una serie consistente di innovazioni nelle procedure di gestione della crisi di impresa: piani attestati, accordi di ristrutturazione dei debiti, concordato preventivo. Tutti metodi basati sulla negoziazione debitore creditori, della quale ultima, però, la L. 134/2012 non fa la purché minima menzione; il timido accenno a questa negoziazione, fondamentale per arrivare ad una soluzione positiva della crisi, effettuato dalla L.3/2012 sul sovraindebitamento [1], qui è obliterato del tutto. Visti gli esempi positivi, per rapidità e soddisfazione dei creditori, riscontrabili ogni giorno presso le Sezioni Fallimentari dei Tribunali italiani, si continua a credere che i contrasti in campo economico si risolvano, meglio e prima, solo seguendo procedure tecnico giuridiche! Ma proseguiamo con ordine.
Nel 1942 il legislatore italiano diede un’impostazione netta alla materia fallimentare: garantire il superiore interesse dei creditori tutti (massa indistinta) tramite l’accentramento della gestione delle procedure nelle mani dei giudici dello Stato, supremi tutori della giustizia sociale. Procedura principe, il fallimento. L’azienda decotta doveva essere eliminata dal tessuto economico, tramite la liquidazione di quel che rimaneva del suo patrimonio, garantendo la “par condicio creditorum”.
Negli anni seguenti tentativi di riforma privi di successo, interventi della magistratura. Dal 2005 in poi modifiche normative alla Legge Fallimentare del 1942 sotto forma di novelle; alla soddisfazione dei creditori è stato aggiunto l’obiettivo di mantenere l’azienda sul mercato, da realizzare tramite la gestione della crisi dell’impresa.
Gli strumenti:
– spazio alla soluzione negoziata debitore creditori, nell’ambito della quale l’attività del magistrato è limitata al controllo del rispetto della legalità; la valutazione del merito della soluzione è di competenza dei diretti interessati;
– la procedura “principe” non più il fallimento, bensì il concordato preventivo, al quale si può accedere in situazione di crisi e di insolvenza;
– la soluzione negoziata può essere raggiunta esclusivamente tra privati senza l’intervento del magistrato (mediazione volta alla conciliazione; piano di ristrutturazione dei debiti attestato); può essere conseguita prima di adire il giudice, al quale viene poi sottoposta per il relativo controllo, senza vincolare i creditori estranei (accordo di ristrutturazione dei debiti); può essere realizzata nell’ ambito di una procedura giudiziale concorsuale (concordato preventivo), che vincola tutti i creditori (anche quelli dissenzienti o che non si sono pronunciati), con una possibile compressione –anche accentuata- del diritto di prelazione;
– tutele non di poco conto sono state riconosciute alle trattative, in modo da evitare che, mentre queste vengono portate avanti, l’iniziativa di qualche creditore (azione esecutiva o cautelare) vanifichi gli sforzi;
– nel concordato fallimentare è stata prevista l’esdebitazione; con la L.3/2012 (sovraindebtiamento) è stata introdotta una procedura negoziale, indirizzata a tutti i creditori, sotto il controllo del giudice, per i debitori non fallibili.
E’ stata cioè abbandonata l’impostazione del Code Napoleon, ripresa nella normativa italiana del 1942, volta alla tutela massima dei creditori, “costi quel che costi”, e si sono invece cercate soluzioni che “risolvessero il problema” tramite un accordo debitore creditori basato sulla valutazione dei rispettivi interessi. Il legislatore ha più volte sottolineato che tale cambio di rotta è stato influenzato molto dalle esperienze straniere contemporanee; non dimenticherei, tuttavia, le posizioni (qualificate, anche se non prevalenti) prese sull’argomento in Italia tra fine Ottocento ed inizi Novecento. Nella risoluzione delle crisi di impresa, in Italia, è cioè successo quanto avvenuto per le composizioni delle controversie tra privati in generale: il codice civile del 1865, nei primi 7 articoli, normava la conciliazione, riconoscendo a tale istituto un ruolo primario; nel 1880 il 70% delle controversie era gestito dai giudici conciliatori; la soluzione delle liti da parte degli stessi contendenti verrà invece del tutto marginalizzata nel codice civile del 1942.
Nonostante l’anticipazione della tutela dell’attività negoziale alla fase delle trattative, sopra evidenziata, presso i tribunali negli ultimi anni continuavano ad arrivare richieste di concordati soprattutto liquidatori, incentrati cioè sulla dismissione dei beni e non su un piano di ristrutturazione aziendale che consentisse la sopravvivenza dell’impresa; concordati, con una situazione economico finanziaria sottostante fortemente deteriorata, spesso a causa della tardività dell’iniziativa. Si è cominciato quindi a parlare, con forti aspettative, di una normativa specifica per il c.d. “concordato in continuità”.
La L.134/2012 [2] ha recepito questi auspici. Innanzitutto ha introdotto normative che definirei “di sistema”:
– nella fase inziale delle procedure si può passare dall’accordo di ristrutturazione dei debiti al concordato preventivo, e viceversa, anche se è avviata l’istruttoria fallimentare, mantenendo la tutela da iniziative (azioni esecutive o cautelari) di singoli debitori; quindi, massima flessibilità di scelta per il debitore;
– la presenza dell’attestatore sulla veridicità dei dati e fattibilità del piano di ristrutturazione aziendale è essenziale, perché sul suo parere si fonda qualunque decisione del magistrato; sono state definite le caratteristiche tecniche e l’autonomia del professionista, rese uniformi per piano attestato, accordo di ristrutturazione dei debiti e concordato preventivo; per tutte e tre le procedure egli è scelto dal debitore; sono state introdotte sanzioni penali di non poco conto relative ad un suo operato non conforme;
– la prededucibilità dei crediti da finanziamenti, ottenuti negli accordi di ristrutturazione o nel concordato preventivo, non è più limitata alle erogazioni effettuate da banche ed intermediari finanziari, ma si estende anche ai prestiti concessi da chiunque (soci e terzo “cavaliere bianco”); essa si applica inoltre a tutti quelli erogati “in funzione” della domanda di accordo o di concordato, purché successivamente sia disposta dal magistrato;
– l’iscrizione nel registro delle imprese è stato reso uniforme come metodo di pubblicità per l’avvio delle procedure, obbligatorio negli accordi di ristrutturazione dei debiti (a cura del debitore) e nel concordato preventivo (a cura del cancelliere del tribunale), facoltativo nei piani attestati (onere in capo al debitore);
– i benefici fiscali già previsti per il concordato preventivo sono stati estesi all’accordo di ristrutturazione dei debiti.
E’ stato introdotto il concordato preventivo in continuità, quello il cui piano prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore o di un terzo, tramite la cessione dell’ azienda o il conferimento anche ad una di nuova costituzione (art. 186-bis L.F.); moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori privilegiati; facilitazioni per continuare o avviare rapporti con la Pubblica Amministrazione (disposizioni con occhio attento alle situazioni debitorie di grosse imprese, o gruppi, con commesse di lavoro da parte del settore pubblico).
Si è dato corpo anche al pre-concordato preventivo, la possibilità cioè per il debitore di avviare la procedura allegando al ricorso solo i bilanci degli ultimi tre esercizi, prima ancora di avere concluso le trattative con i creditori, chiedendo al magistrato l’autorizzazione a depositare il resto della documentazione in un periodo che varia dai 60 ai 120 giorni. Tale innovazione dovrebbe aiutare lì dove le trattative vanno troppo per le lunghe, per esempio perché la delibera di una banca deve seguire un iter burocratico interno farraginoso. Tuttavia è stata introdotta –nell’art. 168 c.3 L.F.- un’ulteriore innovazione: “le ipoteche giudiziali iscritte nei 90 giorni che precedono la data della pubblicazione del ricorso –di ammissione al concordato preventivo- .. sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori al concordato”. Considerato che nella stragrande maggioranza dei casi si ricorre a queste procedure di gestione della crisi quando quest’ultima è in stato molto avanzato, ritengo che spesso l’uso del pre-concordato preventivo sarà improprio, se non controproducente: operatori poco scrupolosi potrebbero rinviare il più possibile un confronto serio con i creditori (o l’ adesione alle loro richieste), contando sulla possibilità di avviare, all’ultimo momento, una procedura “snella”.
Le innovazioni introdotte dalla L.134/2012, quindi, non sono da poco. Tuttavia l’ emersione anticipata della crisi (uno degli obiettivi della legge) è ben lungi dall’essere realizzata, in quanto mancano la normativa sugli indici di allerta, un coinvolgimento proattivo del sistema bancario, la formazione degli operatori sulle tecniche negoziali. E su tutti e tre questi punti, per il futuro, non sono ottimista.
Sull’importanza dell’emersione anticipata della crisi “nulla quaestio”: per qualunque evento contrario, sia esso una malattia come un incendio, l’intervento di contrasto più è rapido maggiore ne è l’efficacia. E la presenza di indici di allerta aiuta. Per quanto riguarda le crisi di impresa, l’unico presente nell’ordinamento giuridico italiano è la segnalazione dei protesti nell’apposito bollettino, introdotto dal Codice di commercio del 1882 art. 689 con cadenza mensile, ridotta a bisettimanale dalla Legge Fallimentare del 1942 art.13. La sua efficacia, per lo meno nell’ultimo mezzo secolo, è stata irrilevante. Il problema fu poi affrontato in maniera organica dalla Commissione Trevisanato, la cui proposta normativa del 2004, dall’art. 8 al 12, proponeva degli indici di allerta mutuati dall’esperienza francese; per le divisioni emerse nell’ ambito della commissione, e per le opposizioni da parte di alcuni settori economici del Paese, di tale proposta non se ne fece nulla. Dopo di allora ben poche, anche se autorevoli, le voci in campo giuridico che hanno ricordato il problema, affrontato invece –e in modo approfondito da anni- dalla dottrina aziendalistica.
Ma nel frattempo, in Italia, al di fuori dell’ambiente giuridico, sono entrati in funzione degli indici di allerta efficaci e diffusi; e nella disponibilità dei principali creditori delle imprese; essi sono i rating che le banche attribuiscono alle singole posizioni di rischio. A seguito degli accordi denominati “Basilea 2”, gli istituti di credito hanno introdotto un metodo di valutazione della qualità del rischio, proporzionale alla PD probability of default, probabilità di insolvenza, ed alla LGD loss given default, perdita in caso di insolvenza. Queste due entità sono commisurate alla struttura patrimoniale finanziaria ed economica dei bilanci dell’azienda affidata, alla rischiosità del settore in cui essa opera, alla tipologia quantità e regolarità di utilizzo dei fidi ricevuti da tutto il sistema creditizio, alla presenza o meno di eventi negativi desumibili dal registro delle imprese e dai registri immobiliari, alle modalità di utilizzo dei fidi presso la banca stessa di cui l’imprsa è cliente, ecc.. Tutte queste informazioni, soprattutto le criticità che esse possono evidenziare, vengono rappresentate in un valore di una scala numerica (in genere da 1 a 10) che è il rating: 1 bassissima intensità di rischio, 10 procedure giudiziali in atto per il recupero coattivo del credito. In genere quando il rating arriva a 7 la posizione creditizia non è più gestibile con i normali criteri, è attivato l’indice di allerta. E’ opportuno che la banca contatti il cliente, gli faccia presente la situazione, gli chieda di porre in essere delle contromisure e –se queste non sortiscono effetto- gli prospetti l’opportunità di redigere un piano di ristrutturazione del debito, inserendolo in una delle tre procedure di gestione della crisi di azienda che ora la normativa italiana offre: piano attestato, accordo di ristrutturazione dei debiti, concordato preventivo.
Il problema di chi si muove per primo è presente e cruciale. L’imprenditore in genere difficilmente è disposto a riconoscere la gravità del problema, pensa che sarà in grado di superare la fase negativa così come altre volte in passato, teme (con fondamento) di mettere i suoi problemi “in piazza”. Tra i professionisti che lo affiancano l’avvocato è quello cui ci si rivolge quando la criticità è di solito molto avanzata ed in genere, in Italia, egli è un tecnico abituato ai metodi avversariali e non alla soluzione negoziale dei problemi. Il commercialista ha rapporti massimo ogni tre mesi con l’azienda, ma troppo spesso si limita agli aspetti contabili e fiscali e si rivolge al collega esperto in gestione delle crisi quando questa è ormai un bel pezzo avanti. Rimane la banca; ma anche qui la tempestività non è la virtù massima: il responsabile del rapporto creditizio, al manifestarsi della criticità, pensa di gestirla con i metodi di sempre (temporaneo aumento del fido a breve, eventuale rinegoziazione, acquisizione di ulteriori garanzie), poi comincia a tempestare il cliente di telefonate sollecitando versamenti, quindi ha remora psicologica ad evidenziare un suo eventuale precedente errore di valutazione, da ultimo il rapporto entra in un cono d’ombra in quanto ci sono gli obiettivi immediati di budget da raggiungere; la banca stessa, poi, ha spesso interesse, per motivi di window dressing, a rinviare la riclassificazione del rapporto creditizio. Tutto ad un tratto, spesso a seguito di iniziative di altri creditori, il rapporto viene trasferito a sofferenze e la gestione passa all’ufficio legale, il quale di solito offre solo due alternative: piano di rientro rigido, senza operatività dei fidi (con ulteriore riduzione di ossigeno finanziario per il debitore), o recupero coattivo del credito.
In base alla legge l’unico che può attivare le procedure di gestione negoziale della crisi è l’imprenditore indebitato, non i suoi creditori né il magistrato (tuttavia uno dei creditori potrebbe depositare istanza di fallimento e, durante l’istruttoria prefallimentare, l’ imprenditore depositare accordo di ristrutturazione dei debiti o fare domanda di concordato preventivo). E la banca è la parte “forte” in un rapporto asimmetrico, soprattutto se si muove per tempo, quando la situazione non è del tutto deteriorata ed esistono margini di manovra, sia tecnici che psicologici. Coinvolgendo le altre banche creditrici, secondo lo schema enunciato nel “Codice di comportamento” redatto dall’Abi nel 1999 ma poco conosciuto.
“Codice di comportamento” che ricalca il “London approach”, un insieme di “non-binding principles developed by the Bank of England to handle bankruptcy; an attempt to avoid liquidation of assests except in emergencies” basato su un comportamento cooperativo delle banche creditrici di un’impresa in difficoltà, a volte portato avanti con l’attività di mediazione della Bank of England. Un’attività negoziale che ha i suoi prodromi nel The bankruptcy Act del 1883 (ripeto, 1883), in base al quale, nell’adunanza preliminare alla procedura giudiziale, il magistrato emanava eventuali provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio del debitore ma era anche OBBLIGATORIO convocare una riunione dei creditori, nella quale era POSSIBILE raggiungere una “composition or scheme of arrangement”. Ed i risultati di tale sistema, in passato, erano ben conosciuti in Italia: “I dispendi fallimentari preoccupano, anche più di noi, gli inglesi. Ed è forse perciò che la loro legge fallimentare è ritenuta fra le migliori, pur non disconoscendosi che i più avvantaggiati sono gli intermediari della procedura!”, Leone Bolaffio, “Il concordato preventivo”, Torino, Utet, pg. 2, 1933.
E l’attività negoziale debitore creditori era presente negli statuti tardomedievali dei Comuni dell’Italia Centro Settentrionale, addirittura obbligatoria nella Repubblica Serenissima di Venezia (che di commerci se ne intendeva!). E perorata nell’Italia del primo novecento: “Meno l’autorità giudiziaria si impiccia degli affari privati, e meglio questi possono essere composti con soddisfazione comune e con minori spese’, considerato che ‘i privati sono ingegnosissimi nel trovare mille vie di uscita, mille ripieghi ed accomodamenti per definire le controversie: vie e ripieghi a cui sempre male si presta la rigidità di una procedura giudiziaria e la severa sentenza del magistrato. D’altronde, quando non ci sia di mezzo alcun interesse pubblico, o non si tratti di assenti o di incapaci a difendersi, la legge non ha nessuna ragione di intervenire con le sue forme imperiose ed inflessibili”; Ercole Vidari, “Corso di diritto commerciale”, Vol. IX, 8303, Milano, Hoepli, 1908.
Nella negoziazione delle controversie tra privati, anche in campo commerciale, quindi, basta riscoprire le nostre radici. Anche se altri, nel frattempo, sono andati molto più avanti di noi nell’elaborare la tecnica della “mediation in bankruptcy”.
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[1] Vedi Matteucci G., “Mediazione e insolvenza – Il ruolo degli organismi di composizione della crisi”, 18.1.2012 su www.mondoadr.it .
[2] Per un’analisi dettagliata della normativa, delle innovazioni introdotte e dei problemi rimasti irrisolti, si può vedere Matteucci G. “La gestione della crisi di impresa – aggiornato al D.L. n.83/2012 (c.d. Decreto Sviluppo) convertito in L. 134/2012”, su www.altalex.com .
2 commenti
Gent. dr. Giovanni Matteucci, molto gradito, puntuale e in parte storico il suo esposto. Eccellente.
Vado al dunque.
Ma la negoziazione? E la previsione preventiva di difficoltà finanziaria?
Ho un caso molto eclatante di concordato preventivo in continuità attivato da famosa azienda bolognese con molti ?????
Ci risentiremo ad inizio 2013.
cordialità
Su questo argomento ho trovato diversi spunti su un sito che si chiama http://www.ilfallimentarista.it e che contiene diversi articoli di magistrati, avvocati e curatori fallimentari.